adesso

adesso

I piedi nudi, a penzoloni sul cornicione.
I capelli sciolti, in ciocche ondulate, memori dei boccoli di bambina. Il viso a guardar giù, le rughe a specchiarsi nell’acqua, giù in fondo, che le onde scioglievano ed intricavano nella sua immagine riflessa. E le braccia, due bacchetti troppo magri e dinocolati , a spuntare sul vestitino a fiori, troppo moderno per la sua età.

 Pensionata. Se lo ripeteva, pensionata

La sua vita, un soffio, quarant’anni volati via. Gli ultimi venti, tutti uguali, scanditi dalla stessa sveglia, l’acqua alle camelie, il tragitto in bicicletta, il suono della timbratrice al passaggio del suo badge, dove una sua foto da educanda proprio non le apparteneva. Il suo lavoro quotidiano, l’esser qualcuno in un ufficio in cui tutti, sconosciuti, avevano il suo numero appuntato in agenda, per chiamarla come unica risorsa per un determinato problema. Una rotellina indispensabile, pensava. Ma sostituibile, con un modello nuovo.

La sua sostituta, una ragazzetta laureata in scienze del cavolo lesso, piena di nozioni e praticità zero, tutta intenta a schematizzare su fogli excel dati, numeri, indicazioni. Giulia invece, aveva tutto a mente. Sapeva chi, cosa, dove, come, dettagli inclusi, tutto stampato in una memoria baldanzosa, presuntuosa, ineccepibile.  La ragazzetta non sa. Andrà a scatafascio quell’ufficio, senza di lei, eh si.

 Le gambe a penzoloni.

Due rami ossuti che finivano in un piede magro, rigato di spesse vene in rilievo, con uno smalto rosa pastello, un po’ rovinato sui bordi. Le muoveva, avanti e indietro, come se avesse sei anni. Poi insieme, come fosse in altalena. E vai su, e vai giù. Spingi, e vai più su, poi scendi, le ripieghi, e di nuovo stese, avanti.

E poi di nuovo, immobili.

Non sono in vacanza, sono in pensione. Sono… vecchia. Rottamata.

 Per mesi se ne parlava, di cosa avrebbe fatto. Alla festa nel suo ultimo giorno, le avevano regalato un cavalletto con pennelli e acrilici, finalmente avrebbe avuto il tempo per dipingere. Non vedeva l’ora. Suo figlio con la nuora, le avevan preso un violino, bellissimo (per me l’ha preso alla feltrinelli, per 50 euro, ma che vuoi farci, già tanto che ci ha pensato..), finalmente poteva suonare. Aveva tempo. Un sacco di tempo. Per fare tutte quelle cose che non poteva fare. In crisi? Ma figurati, non vedo l’ora. Non vedo. L’ora.

 Aveva dipinto. Suonato. Bagnato le camelie. In bici per la sua città, al mercato, a prender la frutta più buona, invece che prendere quella del super (quand’ero in ufficio mica potevo).

E il cinema, alle prime ore del pomeriggio del martedì, 4 euro, un affarone.
Poi, passare da pensionata in ufficio. I saluti, le feste dei colleghi, i “capperi se ci manchi, qui è un marasma con la ragazzetta”, eh si. Le prime volte.
Poi arrivava, ah ciao, si scusa ma abbiamo una riunione, e girare per i corridoi sentendosi di troppo, trapassata, pensionata. Una disperata in cerca della sua passata identità. La dottoressa Giulia F. , diventata “una pensionata”. Se l’avessero investita, sul giornale non sarebbe apparso “dirigente bla bla..”,  ma “pensionata”. O peggio, anziana.

 A penzoloni. Trasparente, ben più di quell’acqua, sotto di lei. L’acqua della sua laguna, sotto il cornicione, sotto la sua altalena immobile.

 

E adesso. E adesso?

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