Il concerto per la nonna
La nonna si sedette sulla sedia, alzando al massimo il volume dell’apparecchio, e un sibilo partì come fischio d’inizio del concerto.
Il piccola grande artista, spinto dall’inerzia dell’entusiasmo, seduto in terra coi suoi bonghi tra le ginocchia, iniziò il suo pezzo. Un assolo, improvvisato, uscito chissacome chissadadove, nella sua fantasia di bambino. E imitando i suoni che lo hanno cresciuto, svolse la matassa delle sue note, giocando coi ritmi e con gli accenti, imparati senza volontà forse, colti nel prato delle musiche che ha incontrato, gettando le dita sulla pelle di quei tamburi come pennellate di un geniale ed inconsapevole giovane Van Gogh. Più piano, più forte, cresco, diminuisco, tutto un discorso logico nella sua mente, come non si potrebbe mai spiegare in altro modo.
E poi ancora, a scegliere cosa suonare ancora, con la sua mamma e Giulio. Una mamma che non sa, che vede l’inerzia dell’incoscienza spegnersi negli occhioni azzurri del piccolo percussionista, la paura di non essere capace, di far figuracce, di cosa come perchè. Vederle in lui, rivederle in se’ stessa. E chiedergli senza parole, tieniamoci per mano, magari riusciamo a farlo, tutti e tre, insieme, a superare i piccoli guadi che ci separano.
Everybody need somebody to love. Ma blues.
Vedere come l’essere stati la stessa carne li rende uniti in un’empatia superiore, e come la logica della struttura, delle note, e di tutte quelle cose che in musica non si possono insegnare, erano tutte dentro quel cuore di bambino. E in fianco, l’aria fresca, equilibrata, affettuosa e sincera a sostenerci. E la mamma, chissà che suonava, era intenta a controllare l’emozione di vedere il suo piccolo capolavoro all’opera, e le dita andavano da sole, senza farsi dir nulla.
La flautista, il pianista accompagnatore, e il grande percussionista, finalmente insieme nella loro prima jam.
E da qui si comincia.