Sotto quella pioggia
Un semaforo annoiato, in mezzo al marasma di vite quotidiane, rinchiuse in scatole su ruote, e le cortesie e le bastardate del “farti passare”, in una coda infinita di gente tutta uguale. La rado gracchia, sempre solo noiosa pubblicità, e subito dopo le notizie, che in questo quarto d’ora la musica abbandona ogni frequenza.
Non parla, lui, non parla, lei.
Stanno nel silenzio dei loro giorni, dei loro discorsi che non serve discutere.
Se lo chiede, com’è che sono arrivati a smettere di parlare. O bene, non di parlare, che parlare parlano. Ma di chiacchierare.
Il loro primo viaggio, clandestino, era colmo di chiacchiere e risa, prese in giro e filosofie spicce.
E lui che la prendeva in giro, perchè arrossiva sempre, e lei che faceva finta di far l’offesa. E tornavano a casa, dalle loro famiglie sbagliate, lottando per uscirne. Quando poi erano entrati nella loro casa, il primo luogo dove potersi amare alla luce del sole, e due cognomi assieme sul campanello, tutto poteva dirsi un sogno realizzato. Nulla poteva andar storto, di tutto ciò che avevano così tremendamente desiderato.
Non se lo ricordava, com’è che avevano iniziato a preparar la tavola lasciando la tv parlar per loro, in un insieme di gesti consecutivi, catena di montaggio della loro vita familiare. Non se lo ricordava, com’è che aveva smesso di chiamarlo in ufficio, di scambiarsi mail d’amore e messaggi di zucchero. Non se lo ricordava, quando aveva smesso di dormire tra le sue braccia, ora ch’era così abituata a voltarsi dall’altro lato.
Il tergicristallo scivolava stanco sul vetro, con una pioggia stanca a dargli scacco. Non c’erano stati litigi, si erano spenti gli ardori, boh. Gli voleva bene, mai avrebbe pensato di vivere senza di lui. Aveva quel modo di capirla anche senza che lei avesse proverito parola, sapeva passarle il formaggio senza che lo chiedesse, sistemare il rubinetto senza farsi pregare, chiuderle la lampo del vestito senza averlo chiesto. Ma forse, forse si era spento. Lei era ingrassata, certo, e quella vecchia gonna di lanacotta le stava malissimo. Se la coprì piano, con l’impermeabile, vergognandosi un po’.
Accostò l’auto, vicino all’ufficio, in modo da non farla bagnare troppo. Lei prese di corsa le sue cose, aprì la porta e l’ombrello, evitando la pozzanghera. Ciao, perchè ciao basta.
– Anna.
Le prese la mano, prima di lasciarla scivolare nella sua giornata. E la guardò negli occhi.
– Anna. Volevo dirti… Hai sempre due gambe stupende.
Inebetita, lasciò lì un sorriso. Chiuse la porta, scivolò nel portico, verso l’ufficio. Tra la pioggia e le lacrime di un’emozione grande.
2 pensieri riguardo “Sotto quella pioggia”
molto bello, complimenti
come al solito ho la lacrima a mezz’asta…