No regrets
Ringraziando il cielo questo luogo ha perso popolarità. E’ tornato nell’ordine del “scrivi perché hai l’urgenza di scrivere”, senza dover rispondere alle aspettative di alcuno.
Ho pensato a lungo di farne podcast, di allargare la platea, ma davvero, che cazzo me ne frega di allargare le platee. Tutto è folla, è ripieno di voci e parole e bei concetti che scompaiono in 12 ore. Ho smesso di fissare anche la musica che creo, rimane lì, grumo di accordi e suoni e parole, che risuonano nella testa e nel piano e nella stanza, che vivono finché li sto vivendo, scomparendo dopo poco. Come il cibo, tanto curato solo per darti un istante di godimento, come la passione, che vivi un istante e poi ne vivi il ricordo, senza che alcuna parola possa davvero descriverlo appieno. E no, non c’è bisogno di condividerne nulla.
Ho l’età e la stanchezza di non dover dimostrare più nulla. Niente doveri, niente obblighi, niente cortesia per i convenuti. Il tempo perso per gli altri, la sindrome da capoclasse, da mamma chioccia, da vittima sacrificale per la collettività, tutti cazzo di fardelli che mi sto scrollando di dosso. Le scelte sono due: o sto scivolando in una solitudine senza fine, oppure sto passando al successivo livello. Secondo me, la seconda.
Sto superando le cose. L’accettazione del lato oscuro, la mia crudeltà e infedeltà di affetti, l’unica cosa che allo specchio mi fa riconoscere. Ed alleluia, aggiungo.
Quante azioni e parole sono schiave dell’abitudine, della consuetudine? Salutare, apprezzare, essere cortesi e riconoscenti, servizievoli e buoni. Non deludere le aspettative. Non riuscire a dire di no, senza pensare al proprio bene ma mettendo sempre davanti il bene degli altri, ma non per bontà, sia chiaro: solo per il benessere di sentirsi “buono”, solo per l’illusione che se dai bontà ed attenzione poi… ti verrà restituita a tempo debito.
A tempo debito col cazzo, ovviamente. Se avessi voglia di psicanalisi direi che è ancestrale, o legato all’infanzia, o all’insicurezza di se’, ma ho studiato musica: è solo noiosamente una abitudine, una consuetudine. Sei talmente abituato ad aver sto istinto da brava ragazza che insisti quanto più non ti va di far qualcosa, come se ti galvanizzasse l’idea di forzarti a qualcosa che non senti, immolata all’altare dell’altruismo e dell’amicizia.
E che mi ha dato l’amicizia? Badilate sui denti. Peccato che c’è differenza a prenderle a sorpresa oppure piazzarsi sì, sorridenti, perfettamente in parabola del badile, ben pettinati e ansiosi di prenderla bene, quella badilata. Il modo ideale per poi potersi degnamente lamentare.
Poi, bon, l’apoteosi è prendersi le badilate dai chiunque, dai nemmeno conosciuti, dagli inutili. Ma anche qui, la divisa da Wonder Woman che difende gli inetti (sconosciuti anch’essi magari), soggiogata dal difendere vuoi le idee, vuoi la cultura, vuoi l’idea di qualcun altro (perché mi faccio trascinare da idee non mie?).
Ed io mi son annoiata di lamentarmi. Preferisco un limbo silenzioso e solitario, senza obblighi e senza pericoli. Senza sentimenti, anche. Dei sentimenti poi non ho mai nostalgia, ne ho della passione, semmai. Ma anche lì, mi muovo e faccio danni. Danni che poi, again, mi specchio e mi riconosco. Mi specchio, mi riconosco, c’è del benessere nel riconoscermi così. Così come il killer che gode nell’uccidere.
Il killer che gode nell’uccidere.