setteecinquanta

setteecinquanta

Ricordo il finestrino aperto del fuoristrada, l’aria addosso a schiaffeggiarmi, e parole di circostanza uscite per un’improbabile consolazione, attonite quanto me. Lui ci provava, a tirarmi su. Come se si potesse, tirarmi su.

Uscendo da quell’aula, piangendo come non mi si confaceva, gli ero corsa in braccio. Umiliata, schernita, per la mia “presunzione”, una punizione arrivata con cattiveria, ferocia, senza alcun preavviso. O meglio, potevo anche aspettarmelo, se avessi visto con giusta malizia al di là del mio naso (ma il Maestro è il Maestro, pensavo).

In fondo il voto non è importante, mi dicevano. Già, il voto non lo è mai, tant’è che quando debbo dare dei voti, non riesco mai a farlo con leggerezza. Il voto. Un numero sulla testa, voto come valenza, tu vali questo, tu SEI questo. Come se un sessanta alla maturità avesse reso certi miei compagni INTELLIGENTI, e quelli da 36 STUPIDI. La differenza tra preparazione ed intelligenza, dimenticata con un numero. Con la differenza che ognuno in un liceo ha diverse aspirazioni, mentre altri esami, come quell’esame, erano il voto al mio essere, al mio futuro, al mio percorso personale. Pure, al mio stesso nome.

E come fosse stato un feedback della propria vita, dopo mesi di abnegazione e sacrifici (oh, se ne ho fatti per quel dannato esame), era arrivata la sconfitta. Sentivo il bollo addosso, e me lo ripetevo in continuazione, per giorni, mentre vegetavo per casa, in pigiama, davanti alla tv. Mediocre. Orribilmente, mediocre.

E lui, quel sant’uomo che mi amava troppo, non sapeva, non poteva trovare le parole giuste. O forse, era soddisfatto col destino, che mi aveva tolto dalla febbre dello studio, della musica, così totalizzante da causarci litigi continui, recriminazioni, infelicità. Un po’ crudele, egoista, certo. Ma cosa darei per riavere un amore così, malato e incontrollabile.

Che fossi presuntuosa, mah. In cuor mio ero piena di paure, di insicurezze, ma la facciata di fuori era sfacciata, non poteva essere altrimenti. Per rimanerci in un’orchestra dovevi avere carattere prima ancora che doti, e io non ero fatta per fare il flauto di fila. Dovevo avere il meglio, essere la più bella, la più sveglia, e nessun ragazzetto poteva respingermi, per forza. Già, il potere dei miei diciottanni. Guai inclusi.

A vent’anni smisi di suonare. Con rabbia, sofferenza, umiliazione. Ed ho fatto l’agente di commercio, giusto qualcosa che non centrasse nulla con la musica. Dopo pochi mesi dal dannato diploma, ero attorno ad un tavolo, nella Milano da bere, con un tailleur aggressivo e mille modi ruffiani cuciti addosso, una macchina come seconda casa e qualche albergo di troppo. Che poi piangessi appena scorgevo un’orchestra sul video, lo sapevo solo io.

Sarà che la vita son tasselli incongrui, che alla fine combaceranno tutti perfettamente. E’ stato come lasciare un amore, per poi impazzire senza di lui, e chiedergli in ginocchio di riprenderti con se’. Per fortuna, i flauti non portano rancore.

Infatti poi tutto ha preso colore, e il mondo là fuori è ben più truce di un esamino davanti a qualche insegnante frustrato di conservatorio. E riesco addirittura a raccontarlo, in questo bizzarro outing, forse per scacciarmelo di dosso una volta per tutte.

Ecco, domani.

Domani è solo un piccolo obiettivo, un traguardo obbligato in cui non vale l’arrivo ma il percorso.  E il voto, speriamo sia buono, altrimenti pazienza, sono già brava per esser arrivata fin qui, altro che mediocre.

Ormai lo studio è arrivato a saturazione, bisogna buttar fuori questo programma ed andare avanti, da queste nuove basi.

(oddio, parlo da maestra anche quando son l’allieva)

Insomma, ho un’ansia addosso potente. Camminando da sola, senza quel sant’uomo  vicino stavolta, a raccogliere i cocci. Anzi, peggio, con i miei vecchi presi con qualche acciacco (diciamo così) e con un bimbo che ha la precedenza sul resto del mondo. Insomma, se andrà male saranno cavoli miei, senza il diritto di piangerne. Anche perchè, insomma, sono “grande” adesso. Già.

Non andrà male.

Avrò un feroce mal di stomaco come al solito, il primo pezzo non sentirò le dita, non controllerò niente, sarò in palla. Poi mi distrarrò per qualcosa, qualsiasi cosa, e farò meglio, molto meglio.
Come quella volta con Prokofiev, poco prima dell’assolo dell’uccellino di Pierino e il lupo, Giorgio a chiedermi sottovoce, Anna spostami la ruota del timpano, dietro di te, eh, cosa, oh, tocca a me. E le dita vanno da sole, e io incredula. E me lo ricordo sempre. Dovrei suonare sempre con un timpanista dietro la schiena.

Okay. Torno a studiare, pattern scorrevoli. E scusate l’outing, ma ogni tanto c’è bisogno.

16 pensieri riguardo “setteecinquanta

  1. Andrà bene, la mente può andare in tilt ma le tue dita … no ! Bacio, dita incrociate (le mie !!!!) e tifo a manetta, come sempre ! 🙂

  2. siamo tutti con te…..respira, chiudi gli occhi, pensa al tuo piccolo grande amore di sempre, il tuo ometto biondo e suona per lui…sarà tutto più facile!

  3. anna scrivi da artista pensi da artista, sei un artista negarsi all'evidenza del proprio cammino è come negarsi l'acqua da bere..quindi sorseggia dissetati abbeverati alla fonte della musica senza annegare :)!

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