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Autore: laflauta

la compositrice.

la compositrice.

Era l’ora. Si sedette alla scrivania, prese la matita, e iniziò lentamente a temperarla, con dolcezza. Ne’ troppo lunga, che si spezza la mina, ne’ troppo corta, con la punta troppo spessa. Gesti lenti, controllati, con la sua serenità che le faceva danzare le mani.

Prese la sua carta musica, come una terrina piena di farina e lievito, pronta a gonfiarsi di suoni immaginati.
La preparò, senza altro sotto a far spessore, disegnò una chiave di violino, con attenzione. E si ritrovò ai piedi di un sentiero, pieno di cose da scrivere, pensare, controllare, e le parti da fare, e le trasposizioni, e le scelte. Quel sano sconforto di chi ci metterà un po’ per arrivarci alla cima, della sua musica.
E senza pensarci troppo. Macchè. Ci aveva pensato eccome, ogni piccolo particolare era spuntato fuori nella sua vita normale, banale, ripetitiva, a suggerirle un accenno, un suono, una pennellata, e lei l’aveva memorizzata nella cartella segreta, quella in cui teneva i sogni, le paure, la volontà.

Cancellò. Cancellò la chiave di violino. Ondeggiò la testa, in cerca del ritmo dei pensieri, ascoltò dove cadeva il suo accento, una danza che la travolgeva, prese la matita e la scrisse, semplice, e tutto quel ritmo dentro la testa era davvero semplice da scrivere, persuasivo, indomabile. Sorrise. Siamo in cammino.

Respirò. Cercò i suoni. Li scrisse a parte in fila, il colore delle voci degli strumenti preferiti, con in testa il respiro, il respiro unico che li trasportava, e mano a mano che dentro suonavano li cambiava, come a cercare l’immagine giusta in una cartella di fotografie. Creò un tessuto di suoni, di colori, di voli. Le dita sicure sul piano, a scivolare lì dove è giusto che volino, cadendo sui punti che più le facevano vibrare l’anima. Perchè non c’è regola, che non quello che a lei piace. Non c’è teoria, non c’è logica se non quella del suono che ti rimane dentro. E chissà se è lo stesso che piace agli altri, così come non lo so se questo fiore giallo è lo stesso giallo che vedi tu, o è solo perchè ci siamo messi d’accordo che si chiama giallo…. Giallo. L’oro di una tromba che mi sussurra una melodia, quella melodia che nasce da sola, e non la sai modificare perchè esce già giusta così. Giusta, così come esce. Come esce.

E il pennello intinto della sua musica continuava a dipingere suoni, freneticamente calma.

Strutturava gli ensemble, come se un gruppo di fiati le suggerisse dentro nota per nota, non aveva che da scriverli. E tutti erano già nella testa, perfetti, e si scambiavano, e modificavano il discorso, e si contraddicevano, interrompevano, gettavano le parti per prender la parola sugli altri, in un’ordinatissima confusione.

E i clacson dell’incrocio del mattino, la voce della vicina a chiamare i figli per cena, la televisione che chiacchera mentre la teiera fischia, il cancello di casa, l’obliteratrice del pullman. E il vento tra gli alberi, e la laguna silenziosa e liscia, e i respiri addormentati del suo amore immenso. Gli occhi puri di un bambino, le sue ciglia lunghe ed attente, la pace di un gatto appisolato sul letto, la luce della domenica mattina tra le fessure del balcone. Tutto era già stato ascoltato, e si metteva insieme magicamente, senza incrinarsi, senza scontrarsi, senza prevalere, senza gridare.

E raccolto tutto, arrivò alla fine, a metter due staghette, una sottile, una più spessa. Controllò, corresse, aggiungendo, togliendo, misurando, come se un quadro immaginato fosse ora lì davanti a lei, silenzioso solo per chi non sapeva ascoltarlo.

Appoggiò la matita stanca, chiuse la carta musica. Sentì tutto dentro di se’, svuotato. Come se ormai nulla le fosse rimasto, di quelle note.

E si svegliò, in un mondo normale.

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abbastanza

abbastanza

Quel giorno stringevo le mani attorno al volante, la macchina ormai spenta, parcheggiata nella mia vecchia casa, un bimbo in attesa poco distante, una vita in attesa, molto distante.
Era solitudine, era stanchezza, era ciò che rimane quando non hai più la rabbia a sostenerti.
Era solo un momento, un minuto, forse due. Mi ero fermata, come a spegnere e riaccendere la mia esistenza, per vedere se da ferma le cose erano diverse. Io che correvo, che non pensavo più, che lavoravo, combattevo, senza cedere, senza poter mettere il pause. Oppressa dall’impegno, dalla parola data, dall’essere affidabile, professionale, responsabile.
Le mani immobili, stringendo il volante spento della mia strada chiusa, fari spenti nel buio di un futuro annerito dal fumo dell’incendio dentro di me.
Non ero triste, non ero felice. Non ero, non ero nulla.
E mi chiedevo, mi manca tutto, e sembra non finire mai.
Un senso di oppressione attorno all’anima, gridare senza voce, morire senza aver vissuto.

Ci ho ripensato, sotto casa, mentre aspettavo un angelo biondo scendere. Le mani attorno al volante, inspiegabilmente, e lo sguardo perso.  Che mi manca, ora che ho ottenuto tutto, e perchè quest’incapacità di essere ebbra di questa vita, senza più privazioni di gioie, di musica e di amori? Come se si avesse sempre bisogno di sentirsi incompleti, infelici, instabili. Come se non si avesse mai abbastanza.

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ricomincio (vado avanti)

ricomincio (vado avanti)

Per quelle volte che non ho saputo spegnerla, nella mia testa, e zittirla, una buona volta.
Lei che mi toglieva i suoni, le voci, i rumori, sostituendosi a tutto.

Per quelle volte che non ho saputo dirle di no, obbligandomi a metterla davanti alla mia vita, i miei affetti, i miei principi.
Tutte quelle volte che mi ha resa peggiore, crudele, falsa, ignobile.

E le bugie, i sotterfugi, le violenze che ho inferto a chi non aveva la mia spregiudicata voglia di arrivare, a chi era più debole, più puro.
I miei giorni persi, i progetti distrutti, il dolore inferto a chi ha voluto aspettare il suo turno, turno che non è mai arrivato.
La poca attenzione a tutto il resto, per il sordo egoismo di celebrare me stessa, venerandola. Come se non ci fosse altro nella vita.

E tutte le maledette volte che mi ha calpestata, umiliata, derisa, fatta a pezzi.

E tutto ciò che ha saputo succhiare dal mio cuore, vampira di sentimenti ed emozioni, lasciandomi inerme subito dopo, rantolare annegando in un vago bicchiere d’alcool, o di pessima nicotina, senza più idee, senza più la sensazione di onnipotenza che lei regala, su quel cazzo di palco.

Come fosse questione di vita o di morte.

Quest’amante che mi distrugge, che mi sta chiedendo troppo…e da cui non riesco a fuggire.
E che cercherò, te lo giuro, di amare ancora, imparando finalmente a farlo, nel modo giusto.

Prima che mi uccida.

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La Luna Splendente

La Luna Splendente

Ti vedo

lì nel cielo notturno

e sento che canti tante melodie

te ne stai lì tranquilla

ma non mi parli,

sogno una serata romantica,

spero di vederti ogni sera.

by Gabriele

piccole lacrime

piccole lacrime

Ti vorrei portare in un mondo senza dolori, senza rughe, senza grigio.

Lontano, dalle parolacce, dalle violenze, dagli sfoghi da giustificare, di questi adulti che non sanno crescere.

Vorrei proteggerti dalla tristezza, dall’angoscia, dal dover diventare grande così in fretta.

Vorrei toglierti di dosso i ricordi brutti, le lacrime che scivolano sul tuo viso di porcellana, bruciando l’affetto che provi nonostante tutto, per chi ti ferisce. Vorrei non doverti ripetere di comprendere, di lasciar stare, di farti scivolare addosso cose che non dovrebbero nemmeno sfiorarti entro chilometri.

Vorrei non sentirti più trattener le lacrime, mentre mi racconti. Vorrei non doverti più distrarre, per sentirti ridere esagerato, sforzato, per voler mandar via le lacrime di prima, che sai, sai che me accorgo.

Ti terrei sempre tra le mie braccia, stretto, picchiando chiunque ti voglia ferire. Ma non posso. Posso solo vegliare sui tuoi passi, e pregare per il tuo cuore, che sia forte ancora una volta.

la ballerina

la ballerina

Abbassò il coperchio della tastiera, mentre lei toglieva le scarpette, la grazia di farfalla posata sulla panca, e le lunghe leve piegate come fragili steli d’acciaio.
La guardava, non sapendo più perchè l’amava, il suo volto da bambina, la sua risata appassionata, e la sua foga ad aggrapparsi al suo braccio quando uscivano insieme, rendendolo orgoglioso e felice di esistere, come se vivesse solo in quel momento. Oppure amava la prima ballerina, la disarmante bravura e sapienza e grazia, quel divino che non sai spiegare, che la faceva brillare tra tutte, invidiare da molte, ammirare ed amare, solo per un giro di punte.
Due passi, un bacio distratto. Due forcine tolte dai capelli, appoggiate sul piano, qualche opinione distratta sul lavoro, i suoi progetti, okay ora a cena e poi vado a dormire, e domani ricominciamo. E scivolò via, a cambiarsi, cantandosi Prokofiev, immersa nelle sue cose.

Sospirò, il pianista accompagnatore. Un sospiro d’amore, un sospiro deluso, ma come, anche stasera, ma io vorrei uscire. Adesso glielo dico…. si adesso…

“…ovvio che se vuoi che usciamo, basta che mi dici, eh, non voglio essere al centro del mondo..” si scaricò la coscienza.

Il suono della doccia, nello spogliatoio, e la stanza di specchi e gesso lo lasciò da solo, tra i suoi pensieri.

Riaprì il piano. Chiuse gli occhi, strizzandoli, cercando gocce di musica nella memoria. E suonò, qualcosa di bello, difficile, che ancora riponeva nelle dita. Era tutto lì, di quando era un pianista, di quando aveva qualche aspirazione (ma quando vuoi, puoi anche riprendere), di quando non l’amava. Come se amarla così glielo avesse imposto lei… ma no, su. Colpa sua, aveva iniziato col gioco del “sei importante tu”, la sua piccola étoile diventata cometa, e lì a mettersi da parte, in un gioco da crocerossino idiota, che lo frustrava, e masochisticamente ne godeva.

Eppure. Era solo ieri quando aveva davanti il Rac due, e le dita che andavano autonome, e il polso da ammorbidire, e tutte quelle scemenze da solitario pianista che lo rendevano incompreso, malinconico, sovrappensiero.

“ma che roba stai suonando? che bella, potremmo farla..”
No, no, questa è roba mia, non ti impossesserai anche di questa! …

“ma no, è robetta, pensiamo al tuo programma”

Lei uscì sgallettando, telefonando ad un’amica, parlando di passi, pliè, e interludi, e altre cose inconsulte.

E io, si ripetè il pianista, e io.
“ah, amore… la giacca….prendimela che l’ho scordata lì sopra…. ma dove avrò la testa!…”.

Uscirono, la ballerina famosa e il suo mondo, e dietro a portarle la giacca, il pianista accompagnatore.

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il sole pulito ad accompagnarmi

il sole pulito ad accompagnarmi

Se ora solo potessi, ti verrei a prendere.
Salirei in macchina con addosso il mio sguardo più bello, e la mia voglia di te.
Imboccherei l’autostrada, mentre ormai spiove, e attraverserei i miei luoghi con un sole pulito ad accompagnarmi, illuminando le mie valli, ridipingendo i paesaggi di una vita. Cercherei dove sei, parcheggiando giusto sotto. Spegnerei la macchina senza chiudere la musica, e controllerei dallo specchio del parasole che non si veda troppo, che ho una cosa in petto, che batte. Aggiusterei i capelli, distratta dai miei pensieri, intravedendo le tue carezze del mattino ancora sul viso, a rendermi bella.
Scenderei con calma, cercando le cose dove il tuo sguardo si possa esser già posato, seguendo i passi che devi aver fatto, seguendo il fumo del tabacco ancora nell’aria, o briciole di pensieri rimasti ancora lì intorno, appiccicati ai muri.

  E ti vedrei uscire da un portone, la testa chissà dove, con una borsa pesante e disordinata di note, mentre la luce si prepara a tramontare. E vedendomi rimarresti interdetto, ma sorrideresti, guardandomi come al solito, come se fossi una pazza, e baciandomi come fossimo due adolescenti all’uscita di scuola.
Metterei il braccio aggrappato al tuo, ascoltandoti le parole, ascoltandoti i silenzi, ubriaca di te. Passeggeremmo lenti e trasparenti, senza bisogno di una meta, senza domandarsi cosa vuoi fare, hai fame, andiamo a casa, abbracciami che ho freddo, che tanto già lo sai.
E non saresti più tu e le tue mani sagge sotto la manica troppo lunga del maglione, e io non sarei una troppo eccentrica flauta.
E il mondo attorno si dimenticherebbe di noi, restando in sottofondo, ridendo un po’, di questi due egocentrici ragazzini innamorati.

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piano e orchestra

piano e orchestra

Distesa sopra l’erba, gli occhi chiusi ad ascoltarsi il vento, e gli armonici dei raggi di sole, le braccia alzate, a dirigere le farfalle, a dar gli attacchi ai grilli.

I fili d’erba le incorniciano il viso, si mescolano fra i capelli, abbracciano le note che nella mente lei immagina, note colorate, luminose, che le danzano attorno, calde come questo primo sole. E se apre gli occhi, un istante solo che si abituano alla luce… ecco, si… piano piano riesce a veder le nuvole, altissime, quei sogni di panna e cielo, e cinque aerei a rigare quella lavagna azzurra in perfetti pentagrammi, e il suo dito a giocarci sopra, disegnando lenta, una chiave di violino che non esce mai bella quanto si vorrebbe. E la cancelli, e la riscrivi, ed è sempre pasticciata, o troppo infantile, o troppo storta, mentre la si vorrebbe sempre artistica, eccentrica, capolavoro d’arte moderna. Mentre quella di basso è facile, è una virgola frettolosa, esce naturale.

Come le virgole sulle crome, guardale, libellule isteriche che scappano in giro, come le sue idee migliori. E la più grande orchestra del mondo, fata di fiori e profumi, a suonare per lei, pronta al suo cenno, a farsi trascinare come da una brezza dolce, quella che già sa di primavera. La testa che dondola, dolcemente, e un cuore nuovo, che si allarga di gioia immensa, e pompa granelli di felicità nel sangue, per tutte le vene.

L’esecuzione più bella del mondo, nella sua mente libera, e pian piano le braccia si placano. E cercano la mano di lui, al suo fianco, le sue dita lunghe e sagge di musica. Una si immerge nell’altra, mentre la gioia si mescola con quella del suo innamorato, il solista del suo più bel concerto.

le risposte

le risposte

Vorrei conoscere un uomo che avesse sempre le risposte giuste.

Un uomo che sappia osannare la pasta scotta, il frigo vuoto, i chili di troppo. Un uomo che sappia consigliarti il vestito giusto, senza sottolineare il fatto che con quell’altro stai proprio di merda.

Un uomo che sappia fermarti con garbo, prima di farti trasformare in un cespuglio dal parrucchiere. Che sappia ordinare sano al ristorante, per non farti sentire in colpa per aver preso anche tu la sua stessa amatriciana.

Un uomo che mentre parli, sembra davvero gli interessi cosa gli stai dicendo. Che capisca che dietro ad uno sfogo, c’è bisogno della frase giusta, del conforto giusto, della bugia giusta.

Un uomo che ti dica sempre che sei la più bella, la più intelligente, la più brava, anche se non è vero un cazzo.  In fondo, non è così difficile, farci felici.