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Autore: laflauta

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Capita che ci sono concerti e concerti.
Quelli in cui non studi, quelli che prepari al millesimo come una brava impiegata,  quelli che arrivi e ti danno fogli pieni di sigle, senza nemmeno una fugace semicroma, e li capisci che c’è lei, la cantante. E te magicamente diventi uno strumento armonico. Ci son concerti in cui nemmeno i fogli con le sigle, si e no ti mandano un sms con i titoli. E ti dicono "te svisa qua e la". Due diplomi di conservatorio, per svisare qua e là.

Poi ci sono quelli che ti frega. E anche se ti danno due euro, e magari ti devi portar la birra da casa, ci tieni, e vai in paranoia per settimane.

Ecco. Io ero in paranoia da settimane.

Uscivo con un gruppo a mio nome. Repertorio scelto da me, accuratamente, scientificamente e visceralmente mio. Da dittatore. Per dire, l’ultima volta che ho portato fuori il flauta group (all’epoca si scivolava tra il quartet e il quintet, a seconda del mio mese di gravidanza) c’era in mezzo il marito come chitarrista. Una vita fa. Diciamo pure… otto anni buoni.

Che poi, son poliedrica. Ah si. Che tradotto in parole povere, significa "di bocca buona". Ed ho suonato il jazz puro, il maistream, il latin, il free, la world music, il drum’n’bass, il funky, l’hip hop. Eppoi la classica quando capita, la fusion, e la bossa. Io adesso la odio, la bossa.
Comunque.

Sta di fatto che ci tenevo. Faccio la prova, provo con lo stoico trio. Splendidi. Prometto giusto qualche Wayne Shorter, e il resto mi concedono tutto. Sono entusiasta io, son entusiasti loro. Ci divertiamo un sacco.

Ecco.

Il concerto era in cornice meravigliosa, al faro di Jesolo. Il debutto ideale.
Saltato. Quattro giorni prima. Saltato, porca troia.

– vabbè fla, peccato. ma noi sabato proviamo lo stesso, no?

E io sento di amarli, i miei due compagni di merende.

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Uno spritz scialbo, e i tuoi occhi verdi a guardarmi. Il solito download di informazioni sulle nostre vite, noi fidanzati  a tempo perso, e come stai, e come risolvi. Mi hai detto: ma cazzo, perchè non provi anche te in comune? E’ la tua soluzione, il pomeriggio stai dietro al bimbo, suoni, fai i tuoi concerti e le tue lezioni, ma almeno hai un’entrata sicura.

Ho vinto la selezione, senza nemmeno sperarci. Ho iniziato dall’ultimo scalino, investito, dimostrato stakanovismo e affidabilità. Mi hanno preso, un po’ più su, nel girore infernale dei contratti a termine. Pensavo non finisse più.

Pensa che ho fatto pure le manifestazioni, le barricate. Con la polizia che ci spintonava, Cacciari che prometteva, lettere e proclami e riunioni, i sindacalisti, i ricorsi, e selezioni, e graduatorie. E farsi sfruttare senza dir niente, che non si sa mai, sei precaria, sempre a rischio. La guerra dei poveri, dove sei vicino di scrivania, ma sei pronto ad accoltellarti per un posto di lavoro fisso.
La finanziaria vecchia, che dà speranze, e quella nuova, che le toglie. A meno di non riuscire quest’ultima occasione.

Adesso ho la busta in mano.

Stabilizzata. Assunta. Fuori dal tunnel.
Un pezzo alla volta, come dicevi tu.

Peccato che sei morto. Sei la persona ideale con cui mi sarei ubriacata stasera.

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La bambina chiese ascolto.

Voleva raccontare com’era andata a scuola, com’era bello in film alla tv dei ragazzi, e che gioco aveva inventato con la sua compagna di banco.

Voleva mostrare il compito di italiano, col voto più alto di tutti, orgogliosa.

Voleva mostrare il ginocchio sbucciato, e anche se non piangeva più avrebbe voluto esser consolata lo stesso. Magari disinfettata, con poi un bel cerottone colorato, magari sentirsi una bella predica. Sentirsi raccomandare di stare più attenta.

Voleva chiedere cos’era meglio, se andare alla festa al patronato, o in parco con gli amici. E se quella maglietta azzurra era meglio di quella bianca.

Voleva ascolto. Perchè le sue piccole cose di bimba un giorno sarebbero diventati grandi problemi di donna, e di mamma.

La bambina si è ribellata. Ha pestato i pugni, cazzo ascoltami. Vuoi un gelato? Ti faccio un assegno?

Ma vaffanculo.

sei davvero un poveraccio.

sei davvero un poveraccio.

Io PRETENDO sia costituito un girone dell’inferno per i mariti che non versano gli assegni di mantenimento del figlio, ne’ tantomeno il costo del dentista, dopo aver rimarcato alla moglie (come se quest’ultima fosse la poveraccia e lui il grande imprenditore) di portarlo da "uno bravo, che gli faccia un bel lavoro".

Sto aspettando un migliaio di euro da due mesi. Adesso mi sto incazzando.

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Prologo: pochissimo traffico per esser un primo pomeriggio, uscita cessalto. Vedo in fianco alla mia uscita il tratto di qualche metro di Guardrail nuovo. Esco, passo sotto il telepass, svolto a destra, passo sopra il cavalcavia. Rallento. Strada deserta, mi fermo un istante. Quel tratto di asfalto nuovo, e poche auto che ci passano sopra, non sapendo che proprio lì.

Sono atterrita. Gabry guarda distratto, si stupisce che mamma sia così impressionata. Proseguo.

Prima scena. Bimbi che giocano, la mia amica sta svezzando un pappagallino, lo sfigato della covata, e mi racconta a riassunto un po’ di cose. Torno a lavorare, me lo accettano al nido a ottobre, le maestre di inglese, la gatta che era da mia madre, la cavalla ormai la darò a qualcuno che non monto mai, bla bla. Appare il marito, capelli lunghi, sembra Mal dei Primitis. E’ orrendo, ma gli sono amica, mi limito a cantare Furiacavalodeuest, lui non capisce, non sa se offenderi o meno. "Ma no, stai bene", mento indomita.

Seconda scena.  Arrivano a cena altra coppia con figlia, che si unisce al resto della prole giocante. Quindi due coppie a tavola più amica single . Non vi dico chi sono, eh, indovinate.
Lei in pantalone jeans pinocchietto, sandalo a spillo, una bella signora sulla quarantina. Lui, camicia bianca aperta al terzo bottone, con pendolo in oro al collo.
Hanno avuto una spiacevole discussione con la figlia, clima da guerra fredda. Ci si gestiscono i contendenti: la figlia si allea agli altri delinquenti, la madre viene fatta accomodare in prossimità del prosecco, lui si siede a fianco a me. Sembra simpatico. Sembra.

– insomma dei diplomata il flauto. E poi? Gli altri due strumenti?
– ehm. se ne studia uno solo eh, e basta e avanza.
-e…il clarinetto? è uguale no? ma poi, a me pare sia come per le lingue, su, mica ti laurei in una sola, devi saperne almeno tre, quindi direi almeno tre strumenti in una botta sola…
– no guarda, un musicista passa anche 12 ore sopra il suo strumento, ogni giorno, mica hai tempo per suonarne mille, a quel livello.
– ah. ma il piano lo sai suonare?
– …beh si…
– ..la chitarra?
– …si, anche quella,..
– visto? sono tre strumenti.  Avevo ragione.
Desisto.

– però, non abiti proprio a Mestre, è periferia.
– mah, non direi proprio… è un quartiere come altri, molto popoloso, residenziale…
– già. ma non è il centro. nel centro si svolgono le funzioni principali della vita cittadina, per un paese come quello sorto dopo la guerra, quando pian piano i veneziani han colonizzato prima le zone subito dopo il ponte della libertà, poi le aree a fianco alle ville patrizie, e sociologicamente la struttura della città si è modificata nel tempo, attraverso la rivoluzione industriale….

Da qui in poi, storia romana, medievale, gli unni (e gli alltri), incluso il ’68 e i domini della chiesa.
Una conferenza, insomma.
Dentro di me gridavo "AIUTO".
Onore ai bimbi che interrompono il monologo chiedendomi di fare da giudice alle loro olimpiadi di acrobazie da giardino. Mi scuso mortificata, interrompendo un’analisi dei gas del sottosuolo friulano e relative incidenze sul mercato edilizio, "sai, i bambini, che ci vuoi fare, scusami..:" e fuggo.
Poco dopo me lo dicono, fa il sindacalista.

Scena tre: sfiziosi bastoncini di carote, finocchi e cetrioli da sgranocchiare, e un meraviglioso arrosto. Il discorso finalmente salta fuori. "come mai non ti sei risposata". La moglie del sindacalista, mi fissa con ammirazione, ed invidia. Si piomba sul discorso uomini che non si prendono responsabilità, donne troppo mascoline e interessate alla carriera.

– …mah, da me ci sono moltissime rumene. Bellisssssime, con un gran senso della casa, della famiglia, non rompono le balle, affettuose accondiscendenti. Non sono come le "nostre", sempre così pretenziose…

La moglie esplode. Miliardi di particelle di rabbia, disinibite dal prosecco, si spargono nell’aria, assieme ad uno "stronzo bastardo" che si cerca di ignorare, ma scivola nel discorso. Il resto son posizioni scontate: gli uomini trovano le rumene perchè non vogliono rapportarsi con teste pensanti. Le rumene però fanno figli, e non pretendono niente per se. E si fanno mantenere, noi italiane invece vogliamo la carriera. Non è vero, siamo obbligate a lavorare, eppoi siamo noi ad occuparci di casa figli e tutto. Taci tu che non sai nemmeno pagare una bolletta. E tu donna, senza di me moriresti. Che son io che porto avanti la baracca.

Io cerco di mimetizzarmi tra le pesche disegnate sulla tovaglia. Ogni volta che i toni tra i due coniugi hanno dei picchi preoccupanti, la padrona di casa minimizza, con classe e garbo, ma il clima è tesissimo. Il top è un tentativo per mandarci tutti a casa, il padrone di casa interroga "su, vi mando a letto:  chi domani deve andare a lavorare?". Le tre donne della tavolata alzano la mano. Imbarazzo totale, risata liberatoria del sesso debole. Insomma, debole.

Finale: riprendo l’auto, senza aver bevuto, che non son tempi. Prendo nuovamente il casello di cessalto, per tornare a casa. Passo sopra l’asfalto nuovo, giusto il tempo per fare un segno della croce, e un pensiero a come…sian tutte cazzate. E la luce ti si può spegnere così, un attimo.

 

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Osservava le altre due amiche gesticolare, illustrare nei dettagli, esagerare con colorite metafore azioni, situazioni, sensazioni, e …dimensioni. Era divertita, incuriosita, come fosse la sua sit-com preferita.

– …e tuo marito com’è?

Oddio. Raggelò.

In un attimo, l’immagine di Franco si fece chiarissima nella sua quotidianità. Seduto sulla sedia di cucina, con una mela e i suoi incisivi sopra, scricchiolando esageratamente, braga della tuta grigia tagliata al ginocchio, maglietta slavata color "fu pesca, ora forse salmone", e ciabatte da mare dondolanti sulla pianta del piede. E la pancetta, il dondolio mentre cammina, la stempiatura importante.

I calzini. Le mutande. Le sue amiche le dicono che quando un marito ha un intimo troppo accurato, ha certamente un’amante. Bella consolazione, si dice.

Telecamera alta, occhio di bue ad illuminarla, immagini che scorrono su di lei. Lei ragazzina, Franco che la intorta in discoteca, e i primi fiori, le prime vacanze, poi il matrimonio, le bambine, e poi il girone infernale delle stesse cose, le stesse cene dalla suocera, lo stesso supermercato, l’agonia di organizzare le ferie, e lei che si sentiva di un’altra generazione.

E Franco. Obiettivamente non posso definirlo "attraente". E’ bravo, certo, affidabile. Non spende in cazzate, non si ubriaca con gli amici, non ha hobby che lo portan via dalla famiglia, e non è così amante del calcio. Ma attraente, quando stravaccato sul divano con ridicoli pantaloncini e una maglietta dei nirvana sgualcita che non gli compre nemmeno la pancia, s’addormenta russando a bocca aperta, ecco, proprio no.

– …insomma, ecco, è ….un marito. Un qualsiasi marito.

Le era venuta così. Frase ideale per chiudere la domanda, senza inutili particolari o metafore. Le amiche non insistettero, cambiando discorso su qualche pettegolezzo di sorta.

Ma quel "qualsiasi" rimase appeso nell’aria.  

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La testa piena di cose che non voglio più scrivere.
I ricordi intasano il presente, un macigno pesante che affanna il respiro, e le azioni.

Tutto come prima, mi son voltata di nuovo e proseguo. In mezzo al disgusto, il disprezzo, la rassegnazione, l’incapacità di perdonarsi la solita leggerezza.

La pelle, quella pelle che manca, quel litigarsi di continuo, le giustificazioni di comodo per la pigrizia di rimettersi in carreggiata. E accorgersi di sentirmi davvero troppo serena e sollevata per non avere la botta di ritorno.

Il vento sul palco ad accarezzarmi le note, eppoi sempre più forte, più forte, e d’un tratto il diluvio. Correre a ripararsi, ringraziando un temporale per aver interrotto qualcosa che mi annoia. E torna tutto, torna sempre. Perdonare è accettare di pentirsene tra poco.

E quando i rimpianti son terminati, si prosegue. Proseguiamo.

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Non è così bene cambiar le foto. Ci passi accanto da anni, senza più notarle. Ora che ne hai sovrapposte altre, noti che non ci sono più quelle di prima, e invece che cancellare, sottolinei.

Come una casa dipinta di nuovo. Ti da’ voglia di riempirla di novità.

Ecco. Ho ridipinto, da me. Ma l’umidità delle solite bugie torna fuori. Devo darci un’altra mano, una tinta più intensa.

 

Per dirla senza metafore : per cancellare quel pezzo di merda del mio ex.

Che poi non mi si dica che son criptica.