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Autore: laflauta

il terzo tempo

il terzo tempo

Facce simpatiche, birra gratis a fiumi, pettorali e bicipiti ovunque. Le ginocchia che cedono per aver ballato troppo, dopo tanti anni, e la migliore bionda a fianco per condividere un rock’n’roll.

Guardarla felice, con quel ragazzo adorabile in fianco, che era fin gusto vederli insieme.

Fare due conti. Due amiche equitanti, un cavallo di 19 anni. Una mail di qualcuno speciale, e il solito mattone sullo stomaco di qualcuno meno speciale. Errori e orrori. Ella, la mia nuova gatta, che disintegra in terra la mia tazza preferita, e nello sgridarla mi si rivolta contro.
E the great gig in the sky, da insegnare alla concorrenza.

Risultato? Sono una schifosa monogama, di base. Let’s twist again, c’mon….

(la direzione saluta e ringrazia i protagonisti, in particolar modo miss paiodivolteasettimana…)

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Giulia ha perso il filo.

Eppure oggi sta li, ferma al semaforo. E non sa ripartire, con l’angoscia seduta in fianco, i rimpianti di ragazza, le occasioni mancate per un soffio, per non aver fatto spazio.

Giulia ha sistemato la libreria. Questa volta li ha sistemati come nelle mostre, per colore di copertina. Cerca un ordine sempre nuovo, a cose vecchie, senza mai comprare libri nuovi a squilibrarle l’estetica, e gli spazi.
Stanotte era in un altro abbraccio, e non sapeva come scioglierselo di dosso. Perchè quando vede un libro nuovo, lo compra per dimenticare ma alla fine non lo finisce mai, perchè non riesce a perdersi. Ha bisogno solo dei suoi, di incanti di parole, e le mancano da morire, quelle parole, e quell’abbraccio familiare.

Giulia mette la prima, passa davanti alla Feltrinelli, e si volta a cercare. Uno schianto, l’auto rotola su se stessa più volte, e cade giù dal viadotto. Come una macchinina per bambini che scivola dal tavolo in terra.

Un volo lungo. E tutti i suoi libri in fila, per essere abbattuti come birilli. E lei ha perso il filo. Che non lo sa dire qual’è stato il libro migliore, se non quello… perduto.

no comment

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I. – e noi, quand’è che ci fidanziamo..a tempo determinato?

fla –  …tesoro, tu sei un infedele patentato, io una traditrice cronica….

I. – beh… meglio una torta in tanti che una merda da solo.

 

 

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Durante la pausa pranzo, io e Mario definiamo la digestione del pomeriggio valutando cosa ingurgitare al Plaza, nostro ristorante di fiducia. Solitamente decidiamo per una insalatina di riso, o straccettini di pollo e rucoletta, o bresaoluccia e grana, e acqua senza bollicina alcuna.

Poi ci strafoghiamo con tiramisù, panna cotta, gelato all’amaretto con Baley, o l’ultima invenzione del Mario: plumcake di farina di Kamut con gelato. Un mattone che si digerisce in due settimane circa.

Il ritorno all’ufficio, con gli scalini del sottopasso stranamente aumentati di cinque, è laborioso e ricolmo di sensi di colpa. E solitamente, mi giustifico con un "ma tanto siao belli lo stesso, su".

– …massi, non è l’immagine che conta, è il carattere.

– …si, anna, è come sei dentro. basta trovare uno che ti veda dentro.

-….mmm….

-….cosa?

– …dentro. E per dove mi vede, dentro?

Ho capito. Il mio uomo ideale è un dentista. O un ginecologo.

la verità sul mal di testa

la verità sul mal di testa

Ci sono problemi che un uomo non può capire.

Scadenze fondamentali, che regolano la vita di una donna. E non sono l’ici, l’affitto, le mestruazioni. Che come è noto, consentono pure la ruota, suvvia.

E’ la pillola. La pillola viene prescritta dal medico curante di due mesi in due mesi. E regolarmente, nella settimana di break tra una scatola e l’altra, il proprio medico ha un sostituto, che riceve nei giorni opposti al titolare. Sei senza ricetta, senza un amante farmacista accondiscendente, e con le vacanze fissate tra due settimane: catastrofe, per la non copertura contraccettiva, nonchè per lo sballamento di settimane "free" e "red". Perchè è sicuro, in quel mese li che ti tocca sospendere, trovi sicuro l’uomo della tua vita, o ti rimetti col fidanzato, o trombi ubriaca senza precauzioni con l’ex marito.

E’ calcolato, se prendi la pillola regolarmente, non rischi nulla. Nemmeno di trovare l’uomo della tua vita, rimetterti col fidanzato. Sul trombare con l’ex, non c’è verso, l’alcool non farebbe abbastanza effetto.

Poi… la depilazione. Perchè è certo, prendi la pillola, non è la settimana in cui convivi con l’ob in tasca, ma sicuro, la giornata giusta coincide con le ferie dell’estetista, la ricrescita della ceretta, il corto circuito del silkepil. Un’irta copertina sulle gambe che se vai in gommone al mare, lo buchi. E lui che ti chiede "ti fermi da me stanotte?"…

E la ricrescita? Colore o meches, si ha di autonomia un mese, quaranta giorni per le più fortunate. Se si ha uno specchio nel bagno dell’ufficio un po’ troppo alto, giusto ad infierire sull’ombra del capello naturale, a volte con filini di bianco, che di principio sta ad affossare ogni tipo di pettinatura, beh… ne ho viste, uscire in lacrime. Perchè ci si accorge della tragedia il sabato. E bisogna chiudersi in casa fino al martedì, che di lunedì il parrucchiere è chiuso. Sono bastardi i parrucchieri.

E lo smalto? Adesso c’è la french manicure da programmare. Ma se non si è fortunate…. lo smalto si rovina giusto quel giorno li, in cui lui ti invita fuori. E tipico, lo smalto messo alla sera sembra spettacolare, al mattino dopo hai le mani da macellaia, rosso-arrostodimaiale.  Molti ritardi mattinieri al lavoro son dovuti alla manicure d’urgenza.

Ecco. Noi donne abbiamo un sacco di cose da pensare, programmare, incastrare tra i vari impegni. Non è facile essere donna, in questo mondo consumistico di perfezione estetica.

Per questo, uomini, ogni tanto vi diamo buca col mal di testa. Siamo bellissime, ma mica sempre…

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Passion

Ho pensato che il blues di Tom Waits che usciva dalla mia macchina si intonava perfettamente a quel trancio di montagne. L’aria calda che ammorbidiva i pensieri, il verde che mi soffocava l’ansia, la voglia di spingere l’accelleratore su per quei tornanti. Forzatamente viva.

Che ogni tanto bisogna dir basta, e sforzarsi d’esser felici, al limite dell’isteria.

Salire sulla tua scrivania, mentre tu parli, parli, parli troppo. Scendere sulle tue ginocchia, lasciando che la gonna si arrotoli su, arrampicandosi sopra le nostre voglie, in cerca di strapparti con le labbra la tua stoica ritrosia a lasciarti andare. Perchè non ne ho voglia, di stare a sedurci, voglio aggrapparmi alle tue spalle e riempire le mani con ogni centimetro della tua pelle.
Poter mangiarti, come fossi crema avvelenata, poter berti, come fossi assenzio, averti, ogni giorno, dentro di me. Dentro. E morirne, in overdose di te.

Che ci son corpi che si appartengono. Che si chiamano. Che scindono l’illogicità delle cose, dei sentimenti, dei legami, per mescolarsi senza ritegno, senza che la mente possa frenarci. In quel mescolio di volgarità dette mentre mi chiami ancora amore. Amore.

Che forse, e ancora, è questo.

 

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La calma di stelle disegnate pungendo il cielo, e l’afa intorno, come non fosse notte.

Il trucco spento dalla stanchezza, il vestito di un concerto estivo che stona, ora, con questo silenzio, e questo balcone solitario. Tutto dorme, e io sveglia a guardare i tetti, con la voglia di allungare la mano in cerca di qualcuno. Ma non è ora, non è tempo, non è ancora mattina.

Le orecchie rimbombano ancora di note euforiche, ritornelli cantati, woofer che tuonavano di bassi. I piedi son scesi dai tacchi, e fanno male di troppe danze sul palco, un male dolce, che ricorda ogni nota cantata. Ed esser svuotata, di troppe energie, di troppe note che tenevo in serbo per stasera, le idee, le melodie, tutto nella memoria breve, ormai legate a questa serata, e già scordate.

Una felicità malinconica, mista alle parole, alle facce, ai discorsi, al resoconto che stampa i commenti positivi su un foglio excel della mente. Traccio una linea, e cerchio in rosso quelli più importanti. Sospiro, soddisfatta, mentre soffoco l’autocritica che mi sale per la schiena, mai contenta sono.

Chiudo gli occhi, ritrovo scampoli delle luci, della maschera messa li sopra, della recita dello spettacolo, come se fossi convinta di quel che ero, come se sapessi dividermi tra li sopra e qui dentro.

Mi parte l’angoscia. Puntuale, a colmare il vuoto di energie e entusiasmo. E’ l’onda di ritorno, la malinconia dell’essere tornata "uguale agli altri", parentesi alla solitudine.

Ho bisogno di droga, droga, droga. Scavo nella mente, dove, dove ne ho ancora. Devo sentirla nelle vene, pompare nelle tempie, aumentare l’acido nel cuore, per farmi volare ancora.

E in un’angolo della mente eccola. Muovo la testa, batto il tallone sul due e sul quattro. Una melodia che nel silenzio suona  regina sopra le case. La sussurro con la stessa energia che ci metterei gridandola. Le note s’arrampicano sui tetti, giocano con le tegole e i camini, e mi abbracciano, mi cullano, mi fanno vibrare, ebbra di suoni, e una nota alla volta fa un’armonia intera.

E via andare, col prossimo.

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Insomma. Giulietta è di un bello che non si immagina.

Domina la stanza, adagiata sul vecchio reggichitarra che ho rinvenuto tra i resti dell’ex marito. Sta lì, con una eleganza mastodontica.

A me piace il mi. Sarà l’egocentrismo che mi domina, ma mi piace il mi. Sul maj o min vado a momenti. Quando son più criptica vado di mi7+.

In queste prime settimane di convivenza, l’ho abbracciata senza aver voglia di smettere, dopo le prime pennate (si dirà pennate anche se non uso il plettro?). Ho recuperato un po’ di tabelle con le tabulazioni, che a parte gli accordi da Azione Cattolica, ho solo ricordi grossolani e goffi. certo, lei mi aiuta. Vibra, scalda, lascia l’alone attorno, l’aurea. Mi maledico di non saperla suonare davvero come si deve.

Ieri, nano intento a risolvere un cruciverba, gatto (ah si, ho un nuovo gatto) che miagola quando il mi cantino trilla troppo, e flauta che…chitarra. Situazione paradossale.

Ho i polpastrelli della mano sinistra che mi fanno un male boia. Ed è bellissimo.