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Categoria: la maestrina di canto

Io sono come mia nonna.

Io sono come mia nonna.

“..te piacerebbe…”
Mia nonna era una pianista. Era una donna con uno stuolo di figli, scappata da Zara (non il negozio, la città dalmata, su..) costretta dagli avvenimenti causati da Tito e da una guerra subdola, che “invitava gentilmente” gli italiani ad andare a casa loro (che al tempo era la Dalmazia, casa loro, ovvero l’Italia, ma l’Italia al di là del Mediterraneo li definiva, e li definisce anche ora, croati, e all’epoca pure fascisti… ma questa è un’altra storia). Era una profuga. Io son figlia di immigrati, alla fin fine.

Lo stuolo di figli, dicevo. Ognuno, dai ricordi che ho dei miei zii, che in verità non ho mai frequentato a sufficienza, aveva un bel caratterino, gestirli non dev’esser stato facile. Mio nonno, che non ho mai conosciuto, è una figura mitologica che mia madre ha circondato di mistero sacrale e che, in sostanza, è morto troppo presto, cieco per giunta, e forse poco incisivo nelle decisioni di famiglia. Mia nonna era un caterpillar. Gestiva tutto, decideva, comandava. Sul comandava potrei scriverne a fiumi. Magari lo spiego dopo.

Insegnava pianoforte, severa come pochi, ricordata con rispetto e timore dai suoi ex allievi. Non ricordo gesti di affetto, coccole da nonna o libri di fiabe o torte e dolcetti, non ricordo nemmeno particolari sorrisi. Era una tosta, mia nonna. Mi regalò la prima Barbie, i primi peluche, tanti fumetti. Sembra non avesse passione per le figlie femmine, e quindi ancor meno per le nipoti femmine, ma io che ne so, tutto ciò che pensavo era filtrato da mia madre… mia madre che traduceva tutto attraverso un vissuto di mezze verità e sacre fandonie divenute per abitudine più verità del reale. Balle, insomma. Ma balle a cui credeva sinceramente.
Torniamo a mia nonna: c’era un disegno di Beethoven a casa mia, fin da bambina pensavo fosse un ritratto di nonna, non del buon Ludovico. Era uguale. Inclusa l’espressione socievole.
Viveva sola, a turno riceveva una famiglia di uno dei figli, nella sala da pranzo agghindata con tutta l’argenteria in pole position, immaginiamo la piccola flauta che a pochi anni e con poco appetito doveva districarsi tra troppe posate e tanto galateo. Ecco, abbracciamola, quando poi scappa nell’altra stanza, con le sedie a dondolo al posto del divano, a guardare la prima tv a colori.

Mia nonna era del 98. Nel senso, 1898. Centouno anni più di mio figlio. Non so sostanzialmente nulla di lei, se non quei ricordi filtrati da, ecco, l’ho scritto prima.
Forse non era così anaffettuosa. Voleva sinceramente bene a mio padre, suo genero, che le dava del lei, e non a mia madre (ma anche qui, il plugin verità/esagerazione è attivato). Per lei lo studio era sacro, non si discuteva sul fatto di studiare, era come respirare. Ecco, le somiglio, in questo.
Ed era severa, materna e disciplinata con gli allievi, come fossero stati tutti figli acquisiti, ed anche in questo, ci siamo.
Era tosta. Madonna santa se lo era. Aveva affrontato la guerra, la fuga a Venezia, il figlio strappato di casa dai titini e fucilato poco dopo (il plugin dice sia ancora disperso in guerra..), rimanere vedova con troppi figli da sistemare, tener botta fino a 86 anni, tener botta ancora fino ai 100 in una casa di ricovero. Le case di ricovero non sono dei bei posti.

Mia nonna comandava, già. Però. Un giorno abbiamo suonato insieme, sarò stata alle medie, ero una ragazzetta. Non ricordo assolutamente cosa, ma tant’è, nella mia famiglia suonare insieme era un qualcosa che andava fatto, quasi fosse l’unico gesto d’affetto che ci si sapeva scambiare. Io, quella volta, comandavo. Scorbutica, pure. Mia nonna, mia nonna al piano, mia nonna accompagnava, mia nonna sopportava lo sclero del solista, piegata e paziente e disciplinata secondo il suo ruolo. Serissima.
Io sta cosa del comandare, ci ho messo tempo eh, ma sto guarendo. Adesso semmai coordino. Chissà, magari con calma le generazioni smaltiscono le attitudini dei progenitori, anche se probabilmente rimangono lì sotto a spingere, indomite, quando si smette d’essere buone persone.

E quindi. Mia madre, in una sfida alla vita, è ancora in ospedale. Riferiva che lì “tutti le dicono cosa fare, tutti vogliono comandare”. Ed io e mio fratello, la generazione che smaltisce, ha saputo commentare in modo adulto, ragionato, come per dirsi “vi somigliamo ma siamo migliorati”. Già.

“Col trattore in tangenziale”. In coro.

La risposta ufficiosa della Siae: autocertificazione e via (in teoria)

La risposta ufficiosa della Siae: autocertificazione e via (in teoria)

Esce oggi un articolo sul Fatto Quotidiano che ripropone il discorso di Patamu dell’articolo di legge abrogato, e nuovamente dipanato dal buon AliprandiSta Siae che ci chiede il borderò per brani non registrati è “fuorilegge”?

Mi sono informata. Perché, come ci sono concessionari Siae da appendere per le orecchie al muro, ce ne sono anche di disponibili, chiari, appassionati nel loro lavoro e, senza far polemiche, con anzi molte idee per migliorare e gestire al meglio la macchina infernale della società autori ed editori. Ho chiesto.

Come definito da Aliprandi non è affatto chiaro (come per molti altri casi della legge italiana) se quell’articoletto che legittimava la Siae ad una sorta di controllo totale sia stato abolito o meno. Come invece è ben chiaro è che ci sia una “discrezionalità” (ancora più scandalosa, a mio parere) differente per sede territoriale. In sostanza, se suono qui basta che autocertifichi che non suonerò brani coperti da diritto d’autore, ma se suono lì il gestore del teatro mi dice che devo fare il borderò a prescindere, e ha già pure versato una pesante quota a copertura degli eventuali diritti.

Allora. La risposta chiara, precisa e circostanziata che ho avuto dalle mie fonti Siae è la seguente: non possono pretendere diritti se si dichiara che  sono brani non protetti dal diritto d’autore.
Ci si può giustamente aspettare un controllo Siae, che verificherà se i brani suonati durante il concerto sono effettivamente al di fuori del vasto repertorio che viene salvaguardato dalla società.

Caso 1: I brani del concerto sono vostri. Dovete presentare il programma (in carta semplice) ed un’autocertificazione in cui dichiarate che sono brani vostri, e in quanto autori NON SIAE (e relative consorelle estere) vi occupate voi della gestione dei vostri diritti. Quindi l‘autore stesso presenta l’autocertificazione.

Caso 2: I brani del concerto non sono vostri ma sono di autori non associati Siae/consorelle estere. Situazione diversa, più complicata, sarebbe utile avere l’autocertificazione dell’autore, o almeno un programma di sala, una locandina, un cd, da cui si desuma che i brani non sono coperti, così eviterete discussioni ulteriori.

Caso 3: I brani sono di autori deceduti da 70 anni (e quindi di pubblico dominio). In questo caso, locandina o programma di sala e autocertificazione, non possono chiedervi nulla.

Il discorso è: Siae non può chiedervi “caparre” per la presunzione che possiate dichiarare il falso.

Chiaro, un pezzo di carta da presentare è il modo migliore per evitare litigi e spiacevoli discussioni con gli ispettori Siae… e a quanto sembra questo è il modus operandum ufficiale indicato dalla Sede centrale.

Se è tutto così chiaro, perché non dirlo subito? Beh, è abbastanza ovvio. Non hanno alcun interesse a favorire altri se non i propri interessi, di sede territoriale in primis. Gli interessi degli autori sono un’altra cosa, sia chiaro. Ovvio che io, autrice Siae, vorrei che verificassero davvero se nei locali che dichiarano musiche non coperte magari suonano pezzi miei…. Ma sarebbe ben più logico che quando le suonano e le scrivono sui borderò correttamente, quei diritti arrivassero. E non è proprio così.

Non parliamo del fatto che, senza questa sorta di boicottaggio degli uffici territoriali per i concerti senza brani registrati in Siae (o corrispettivi esteri), si incentiverebbe tale repertorio, avremmo prevalentemente concerti di musica originale free-diritti oppure una classica definita ai 70 anni dalla morte dell’autore. Repertorio che non frutta una cippa alla società.

E qui mi viene la riflessione che in 25 anni di onorata carriera concertistica mi risulta di aver compilato sempre borderò anche se si trattava di una 24ore vivaldiana.

Insomma, che ci vuole a mettere un bel disclamer chiarificatore sulla home del sito ufficiale, caro ufficio di comunicazione Siae?….

 

 

 

 

 

 

Posso davvero non pagare la Siae? Ed è giusto non farlo?

Posso davvero non pagare la Siae? Ed è giusto non farlo?

Dopo la mia lettera aperta al Ministro, e relative risposte del Ministro stesso e del Presidente della Siae Gino Paoli, molti mi considerano un punto di riferimento per una sorta di guerra dei musicisti contro la Siae.
Chiariamoci: io vado proprio nella direzione opposta. Io non voglio abolirla, voglio semmai farla funzionare.

Mi hanno in molti tirata in causa dopo un altro articolo virale sulla questione, ma parliamo di cose molto diverse.
La legge sul diritto d’autore è del lontano 1941, chiunque abbia sottoscritto un qualsiasi contratto riguardante i propri diritti d’autore sa bene che si porta dietro una serie di clausole bizzarre (tipo l’obbligo di stampa di 300 copie, che uno pensa “mi ristampano i dischi?” ma invece si riferisce ai libricini con musica e testi che si usavan negli anni 50) ed è decisamente obsoleto, oggi.

Distinguiamo bene: se uno vuole esser convinto di registrare a proprio nome un brano, non serve la Siae, basta la storica ricevuta di ritorno per una busta coi propri spartiti, sigillata, autoinviata. Oppure ci si appoggia a servizi esterni, basta un giro sul web e ce ne sono moltissimi. Ma la questione diritto d’autore è un’altra cosa.

La Siae paga i diritti d’autore. Li paga poco e male? Questo è un altro discorso.
Uno registra all’estero i propri brani (BMI, SACEM, GEMA, ecc)? Se i brani girano in Italia, per radio o per propri live, passa comunque tutto attraverso la Siae, che ha mandato dalle altre (e quindi la quantità di diritti incamerati sono i medesimi, in quanto è sempre Siae a controllare in Italia), che però si tratterrà una propria quota. Quindi si risparmia in  quota annuale (all’estero sono molto più economici) ma si guadagna in diritti molto molto meno.

Uno NON registra i propri brani? E’ macchinoso, per chi non è avvezzo con la burocrazia, deve comunque versare una cifra per il permesso Siae che poi verrà restituita, ma è esente dal pagamento Siae. Per i propri brani però. Se solo ci mette un arrangiamento di un brano di altri, o esegue un pezzo di Morricone, paga.
E’ sbagliato? No. Io, signor Morricone, scrivo un brano e se tu lo suoni fuori mi paghi i diritti. Esattamente come se mi suoni un brano della flauta, o smerci una sua foto in bikini per pubblicizzare un aspirapolvere, la paghi. E’ corretto.
Quindi mettiamo l’ipotesi che non registriamo nulla in Siae quindi non la paghiamo. Bene. Poniamo il caso che (succede, succede) qualcuno mette un nostro brano come sigla di un cartone animato o di una pubblicità (non parlo di ABUSO, ma di semplice USO). Che si fa?
Ci siamo mandati la busta a casa, bene, possiamo rivalerci con avvocato su chi usa la nostra musica e verificare i termini per un compenso. Quanto ci costa un avvocato?……. Okay, lasciamo stare, ascoltiamoci la sigla ogni pomeriggio e stiamo felici così.

Se invece siamo iscritti alla Siae, segnaliamo e la attiviamo in modo che (mettichesisiadistratta) recuperi i nostri diritti. Ribadisco, per l’abuso (mia musica che esce a nome di un altro) ci attacchiamo al tram, ma per meri diritti loro lo fanno, ne ho avuto più volte conferme.

Ma veniamo ancora al discorso Musica originale non registrata in Siae. Adesso si parla che non serve più autorizzazione e borderò, esattamente come mesi fa si parlava dei bollini sui CD non più obbligatori, come della legge (ma era solo una proposta, sospesa) della musica dal vivo liberalizzata come in Inghilterra….. Raga, è il web. Al primo controllo Siae cosa facciamo, gli mostriamo uno screenshot di un blog?… Informiamoci bene.

La vera “battaglia” non è “contro” qualcosa, è a mio parere abbastanza inutile straparlare e bestemmiare sulla Siae. E’ palese che non funziona, che ha poteri fortissimi che vogliono mantenere le cose così come sono. Ma i tempi cambiano. Noialtri dobbiamo farle cambiare.

La questione è: non ci interessa il diritto d’autore? Okay. Ma la fetta di programmi musicali più grossa è costituita da musiche di altri autori, italiani ed esteri, che il diritto d’autore lo vogliono. Quindi si paga lo stesso.

Insisto: la Siae va riveduta e corretta, anche se per piccoli passi, oppure va liberalizzato il mercato, con altre società che facciano la medesima cosa ma creando concorrenza, e trasparenza vera.

Chi lo può fare?…. la politica. Porco mondo.
Continuiamo a far rumore, è da lì che devono cambiar le cose.

L’educazione alla buona musica (come provare a cambiare il mondo)

L’educazione alla buona musica (come provare a cambiare il mondo)

Gabry Drummers sepia

 

Sto raccogliendo idee e spunti per proseguire il discorso iniziato (con una eco mica male) nel precedente post, sono stata rimpinzata di commenti e ottime ipotesi… Bello. Chissà se in parlamento funziona così.

(pausa attonita di riflessione)

Ehm. Dicevo.

Nei tanti discorsi ho colto tanto, tantissimo sconforto. Colleghi, amici, rassegnati, nauseati da una realtà musicale in Italia che fa venir voglia solo di fuggire all’estero. Certo, mica è solo la musica, è tutto il panorama etico che è crollato, un becero quotidiano fatto di scemenze, volgarità inutili, valori da dittatura. E così abbiamo ragazzine di 12 anni che si vedono grasse, giovani che non studiano ne’ lavorano, mondi che passano attraverso schermi touch, come se tutto, anche un amore sbagliato fosse possibile bannarlo, o cambiarlo con un lieve gesto d’indice nell’aria.

Volendo metterci del nostro, come possiamo cambiare le cose? Come cercare di cambiare il mondo musicale, il “pubblico” stesso, le nuove generazioni, i nuovi musicisti? Come rialzare la nostra arte, rieducando il mondo ad un livello più alto e differenziato della musica?
Ho (ormai l’avete capito) qualche idea (che vi snocciolo con la solita storia dei punti programmatici).

1. Si parla spesso delle “scuole medie coi flautini dolci”, come se ci fosse una delega totale all’educazione dell’orecchio alla scuola dell’obbligo. Ma quando mai. La musica si impara, come la parola, come la pipì sul vasino, come la forchettina e il bicchiere con due manine, da mamma e papà .
Pensateci: la quantità di musica che ascoltano i bimbi è di dubbia qualità. Spot televisivi, sigle, gingle. La caratteristica principale di questa musica è commerciale: ripetitiva, semplice, non orientata alla ricchezza di armonia o di suoni, bensì concentrata sulla memorizzazione del prodotto, sul ritmo. Musiche preparate spesso in fretta, con una tastiera, nella stanza del pubblicitario, o ritagliate da cose più complesse che perdono il significato complessivo. La musica diventa un sottofondo, l’attenzione è rivolta a parole o immagini, non ai suoni.
Poniamoci l’obiettivo di far ascoltare, solo ascoltare, la musica. Quella che a noi piace, perché no. Stimoliamo il bimbo a ballarla, a battere il tempo, a muoversi secondo il fraseggio della melodia, facendogli riconoscere i passaggi armonici (eccerto) suggerendogli che sono, semplicemente, suoni diversi. Canticchiamo le parti degli altri strumenti, le linee melodiche secondarie.

Tutto questo perché? Beh, amplieremo la sua attenzione sonora, svilupperà un’intelligenza musicale, utile nell’identificare meglio una voce o un suono nel caos. Lo agevoleremo nell’essere intonato, come nell’avere senso del ritmo, con evidenti facilitazioni nella sua vita sociale (chitarrista=donneapalate, quellocheportaidischi=sfigato=speriamoabbiajudo).
Ma soprattutto, cresceremo una generazione che non si accontenta delle melodie tutte uguali, o di un tamburo che pesta e ciccia. Cresceremo figli che ameranno un gruppo musicale per la musica, non solo per la pettinatura o i video trash.

Lo so che vorreste che io facessi esempi. Naaaa. Non ci casco. Tanto avete capito.

 

2. Come insegnanti di musica si ha, ovviamente, un ruolo privilegiato. Il Maestro è un guru. Peccato che spesso ci dimentichiamo che non dobbiamo solo insegnargli le scale e i pezzi, abbiamo/possiamo avere un ruolo straordinario nel crescere i giovani musicisti. Prima di tutto, insegnargli la storia della musica. Appassionarli con qualche aneddoto, con indicazioni precise sui brani, sia di classica che di pop. Dargli due indicazioni armoniche (basterebbe solo fargli capire i “colore” di un accordo, di una cadenza, di un giro), ragionare sulle strutture, spiegargli i particolari a prescindere dal fatto che li possano riprodurre.
Ma ocio. La chiave è una sola. L’entusiasmo. Dobbiamo trasmettere la nostra passione, la nostra cultura, a prescindere dal fatto che forse, all’inizio, un po’ si annoieranno e ci snobberanno. Capiterà che la ragazzina innamorata degli OneDirection (ok, l’ho detto) vi arriverà un giorno con un brano di Nina Simone. Dobbiamo dare l’acqua migliore ai nostri fiori, concimando con le nostre conoscenze. Più siamo noi ad averne, più le potremo trasmettere.

Non si dovrebbe mai screditare i loro gusti, semmai aver pazienza di far comprendere loro quali musiche sono “cloni” le une delle altre e quali invece possono aprirgli le orecchie, e il cuore. Dobbiamo educarli al gusto, a riconoscere la bella musica nelle caratteristiche più profonde. E magari dargli un po’ di fiducia e ascolto, analizzando con loro i brani preferiti.

Cresceremo una generazione migliore.

3. Vi capita mai di avere amici che vi fanno domande musicali? Da musicisti ci sentiamo sempre delle fighette, ce la tiriamo come una fionda e rispondiamo con altezzosità. Ecco, penso si possa migliorare il gusto del mondo proprio partendo dagli amici. Io ne ho molti che, ai miei concerti, mi dicono “mi è piaciuto tanto ..ma io di musica non capisco nulla”. Eppure io chiedo, stimolo all’analisi, mi interesso sinceramente alle loro impressioni. A volte sono strabilianti.
Parlarne, spiegare in termini semplici, accettare anche qualche uscita infelice, senza incazzarsi come una iena uscendo con bestemmie se uno confessa di apprezzare All… Albano. Spieghiamo, proponiamo un’alternativa.

Tante volte mi capita di parlare di musica con gli amici, a volte di cose complicate, da tecnici. Ne parlo loro come fossero musicisti, a volte mi dicono “oh non capisco niente ma ti ascolto lo stesso”: è un pregiudizio, quello che chi non suona non può capire. La musica è una cosa semplicissima, basta chiudere gli occhi e sgomberare la testa.

Siamo capaci tutti. Poi se impariamo ad ascoltarla, ascoltarla tutta, dalla prima nota al colpo di rullante, allora è ancora più figo.

Anche perché la Siae si paga uguale, per la musica bella e per quella brutta. Almeno proviamo a far apprezzare di più quella bella, no?

 

P.S.
Nella foto, Gabriele, un decennio fa, con la sua prima batteria (orgoglio di mamma flauta)

 

 

Lettera di un musicista al Ministro alla Cultura

Lettera di un musicista al Ministro alla Cultura

Gentile Ministro Bray,

sto seguendo il suo operato con interesse e piene speranze, sa? Mi sembra sia giunta l’ora di cacciare i mercanti (ed i predoni) dal tempio della cultura, ridando finalmente dignità alla vera ricchezza del nostro paese.
Ero così affranta ed indignata di non veder traccia di questi argomenti nei programmi politici passati, anzi, di leggere come i fondi per orchestre e festival, come le stesse istituzioni scolastiche musicali, fossero depredate senza alcun ritegno. Già, perché sa, sono una musicista, e spero ardentemente che il suo sguardo si posi presto sulla riorganizzazione seria del mio ambito, del mio mestiere.
Perché mi conceda di sottolineare che, quando qualcuno ha passato metà della sua vita in conservatorio, in orchestre, concerti, docenze di musica, questa non si chiama “passione” (e quindi senza troppi diritti), ma LAVORO.

Mi verrebbe da raccontarle la mia storia, con tinte lagnose e molta autocommiserazione, ma sarei falsa: io non voglio lamentarmi. Voglio proporre. Lo faccio io, perché non capisco perché, ma lì da voi non lo sta facendo nessuno.

Il musicista è un lavoro e dovrebbe bastare per mantenere una famiglia. Il dato di fatto è: il musicista ha quasi sempre un secondo lavoro (insegnante di musica nel miglior dei casi, ma spesso è architetto, impiegato, muratore, qualsiasi cosa), per necessità. I metodi di pagamento sono bizzarri, non ci sono indennità per malattia o disoccupazione, la “fu” Enpals è un fondo perduto, non garantisce la pensione a nessuno.
Io avrei delle idee.

  1. Ragionare su di un metodo di pagamento per le prestazioni occasionali artistiche, agile e alla portata non solo di un ente lirico, ma soprattutto del club, del baretto, della proloco, della contessa che vuol fare un concerto nella sua villa in collina. Non possiamo essere equiparati ai liberi professionisti, obbligandoci alla fatturazione… Non siamo liberi di niente, veniamo assunti per una sera, suoniamo, smontiamo e andiamo a casa… e non abbiamo mai un giro d’affari congruo, mi creda. Ci abbiamo provato in tanti. L’unica è affidarci alle cooperative che fatturano per noi  “soci lavoratori”, ma anche lì, comprenderà il caos di agibilità, prefatture, fatture, irpef, iva, per una prestazione che se arriva ai 100 euro facciamo festa. E non arriva tutte le settimane. Che poi, si immagina cosa ci risponde il baretto quando gli diciamo “a chi intesto la fattura?”….Invece: incentiviamo i concerti, abolendo il nero o altre fantasiose soluzioni: una ritenuta d’acconto con massimali più ampi, o i vaucher postali, o un nuovo metodo di “prestazione occasionale artistica”, appunto. Magari si può associare un obbligo di previdenza assicurativa personale, giusto per darci l’illusione di metter via qualcosa per la nostra pensione (che lo sappiamo bene, non avremo mai).
  2. Abolire i mille permessi per fare musica. Definire orari e decibel per tutta l’Italia, togliendo l’arbitrario onere ad ogni comune di definire tempi e modi per la musica dal vivo. Una comunicazione via mail certificata, magari. I locali sarebbero più incentivati a fare concerti dal vivo, ci sarebbe finalmente più lavoro per tutti (e più concorrenza, e migliore qualità..) e meno musicisti a far gli architetti, ingegneri, muratori, ….
  3. Metter mano alla Siae. (In sottofondo ora ci dovrebbe essere un colpo di cannone…). Comprendo bene che si tratti di una lobby di difficile concertazione… ma è ora e tempo che si chiariscano ruoli e compensi degli autori, che non possono più essere di serie A e serie B. Non mi dilungo sui costi annuali a cui gli autori son sottoposti, sulla distribuzione dei diritti fatta in base alla notorietà dell’autore (come se la popolarità fosse sinonimo di qualità o di merito), sull’affossamento degli autori di musica colta a favore di quelli da balera. Non mi insinuo nemmeno nel raccontarle come funziona, cartaceamente, sia i permessi, il pagamento dei diritti (e le cifre incredibili richieste), le modalità (sempre cartaceee, non sia mai) per registrare un brano come autore o come incidere un disco, con propri brani, pagando alla Siae i propri diritti…. Penso sia il momento di prender il toro per le corna, ridando dignità e qualità alla musica. Perché è denigrando gli autori che si svilisce la musica che poi scriveranno (e che i nostri figli ci faranno ascoltare in macchina…).
  4. Ridare dignità alla musica. Pensarla come un investimento, un bene prezioso che va cresciuto, non tenuto in vita come un moribondo. La “cattiva musica”, come i “cattivi esecutori”, esistono perché non c’è educazione alla “bella musica”: molti, troppi, non la sanno distinguere, perché la bella musica non la ascoltano mai. Quindi per loro, che un Notturno di Chopin non l’han mai incrociato per sbaglio, un pirla che si crede Mozart e suona una nenia su tre accordi è bella musica. Ed è pure rinfrancato se lo vede suonare, che ne so, in Senato (…). E per fare questo è fondamentale passare al punto successivo.
  5. Educare alla musica. Mi creda: ognuno può suonare uno strumento. Ognuno può cantare. Ma ancor più, ognuno può ascoltare. Certo, si può agire sull’insegnamento nelle scuole medie, sui programmi, sull’inserimento di altri strumenti oltre al flauto dolce (che a dirla tutta, a me è sempre piaciuto assai). Ci vorrebbero soldi, okay. Io però avrei un’altra idea. Rendiamo la musica, come le attività sportive, detraibile. Il corso di musica, le lezioni di pianoforte o di propedeutica, o il corso di chitarra e batteria, avrebbero la stessa dignità del corso di calcio, sarebbero allenamento non solo dei piedi, ma anche della mente, dell’anima, della sensibilità. E’ un provvedimento facile da farsi. Poi, anche qui, inserire una normativa intelligente per gli insegnanti di musica, che son sempre gli stessi musicisti di cui sopra, che per guadagnare duecento euro al mese devono aprirsi una partita Iva…  Sarebbe tanto più semplice pensare ad un metodo di assunzione leggero, così da non gravare le famiglie dei costi di insegnanti inquadrati come liberi professionisti. Ci vuole poco a trovare una soluzione adeguata. Ha mai visto quello splendido documentario sulle orchestre costituite con ragazzini delle favelas del Venezuela? Orchestre che peraltro suonano da paura? Mi chiedo perché non partire da quel presupposto: investiamo sul calcio (…) mentre si potrebbe farlo benissimo anche con la musica. Con un risultato straordinario.

Sa, sono davvero abbattuta nel vedere come eticamente la “mia” Italia sia in recessione, da tanti anni. Penso che entrambi la pensiamo allo stesso modo, ovvero che sia la cultura la chiave di volta per far rialzare il nostro paese dal baratro becero di ignoranza e valori indegni in cui è precipitato. Io ho fiducia in lei, faccia un’azione di coraggio e si butti.  Di certo ne saprà più lei e i suoi collaboratori di me, ma la faccenda la vivo da 40 anni sulla mia pelle e mi creda, sono tanto, tanto tentata di fuggire anche io dalla barca che affonda.
Però, che devo dirle, nella mia città c’è un teatro che si chiama come un uccello che, ogni volta, rinasce dalle ceneri…. come un incendio che brucia musica, ricordi, suoni, ma in un modo o nell’altro si rimette in piedi. Noi a Venezia ne sappiamo qualcosa.

Le auguro buon lavoro, signor Ministro. Quando ha voglia, le offro un caffé.

Anna

Guadi, refrain.

Guadi, refrain.

Un mese fa mi si è rotto qualcosa.
Una brutta discussione, di quelle in cui rimani basita dalle parole, dai discorsi e dai concetti fuori dal mondo. Stai lì come un ebete, senza sapere nemmeno come reagire, consapevole di essere uno sfogatoio di mille altre cose accadute, un povero cristo prescelto per prendersi tutti gli insulti destinati a quelle due ultime settimane. Ho cercato di difendermi, in cuor mio so di aver bontà delle mie ragioni, ma in verità devo difendermi da altro, non da un avvenimento, ma da tutto altro. Altro che ha enormi controsensi. Non capisco. La testa mi scoppia, sono stanca, ho dato molto, ho portato alla meta molte cose con fatica, ma arrivata in cima, quando nessuno ormai vede, vengo presa a schiaffi.

E’ una sensazione che ho ancora addosso. Provo a sganciarla da me, provo a passar sopra e dimenticare, provo a chiarire le priorità, riflettendo con lucida analisi. Decisioni ovvie da prendere, che però coinvolgono altri, i cui volti mi passano in rassegna davanti agli occhi, con le loro voci, le loro idee e progetti. Ma nemmeno il non voler condividere una visione così distorta, certamente comoda, di una catena di montaggio, forse molto moderna ma completamente fuori dalla mia etica in cui l’allievo viene prima di tutto, di tutto. Ne ho parlato ancora, con gli amici fidati, senza riuscire a far comprendere quanto mi faccia ancora male, probabilmente.
Andrò oltre, come ho sempre fatto. Ma addosso ho lo sgomento di chi ha fallito, per troppo entusiasmo, per troppo amore per questo mestiere, per l’abnegazione da educatore, e difensore, e mamma chioccia. E di certo il velo becero dell’opportunismo non mi appartiene.

E’ un dolore solitario. I ragazzi li prendi per mano, li sgridi, li proteggi, li lodi, li mandi sul palco seguendo con le labbra e il fiato ogni loro nota, e li lasci scendere ad abbracciare madri e fidanzati, che han avuto forse meno ansia di te. Dopo qualche anno scompaiono,  proseguono le loro vite, tengono la musica come lavoro o come ricordo, o come parte della loro pelle. E quando li incontro, sono felice di averli aiutati o anche spinti a salire uno scalino in più della loro vita, dietro le quinte.

Non ho ancora deciso cosa fare. Sto qui a martoriarmi lo stomaco cercando la via più logica, consapevole che si chiudon porte e si aprono portoni, come è successo altre volte. E forse le situazioni troppo totalizzanti a volte è bene lasciarle andare, che tolgono troppe energie. Questa, come altre.

Ecco, sulle altre sono ancora meno ferrata. Forse perché meglio concentrarmi su questa, che nasconde abbastanza bene tutto il resto.

Qualche giorno fa ho deciso di guadare un torrente. Dovevamo andare dall’altra parte. Una cosa non complicata, abbiamo trovato il punto meno pericoloso. Eppure mi son ritrovata ferma, immobile, senza riuscire a passare, dopo il primo passo, ne’ avanti, ne’ indietro. Scivolavo sulla roccia bagnata. Vertigini, panico, non lo so.
Ero ferma, senza forze, confusa, ne’ avanti, ne’ indietro. Eppure, così al sicuro in quel limbo.
Forse gli amici di vecchia data capiranno. Me, e i miei guadi.

Il Saggio di Musica

Il Saggio di Musica

Per molti sta solo finendo la scuola, per altri è l’inizio della definizione delle vacanze, per altri inizia un rilassante periodo di vita all’aria aperta, movimento, cibi freschi, sole, film anni ottanta alla tv.
In realtà, non c’è niente da rilassarsi: a fine maggio ci sono i saggi. Gli stramaledetti amati saggi di musica.
I saggi sono quel momento in cui i tuoi allievi devono dimostrare che i soldi versati dai loro genitori siano fruttati, a prescindere da capacità o applicazione dei figli. Tutta la famiglia investe nelle lezioni settimanali, in denaro e tempo e spostamenti e tagliando del parcheggio, per potersi recare, con nonna e zio con telecamera al seguito, dentro un teatro/auditorium/salaconcerti ad applaudire il pulzello di casa.

I ragazzini vengono agghindati con camiciola e gilet (che non metteranno in altra occasione se non al prossimo saggio), le fanciulle con gonnellina e ballerine, e non di rado un’acconciatura fresca di parrucchiere. Hanno il loro spartito sottobraccio, studiano muovendo le dita silenziosamente su strumenti o tastiere immaginarie, perché una strana logica li induce a credere che sia fondamentale ripassare fino all’ultimo momento, ripetendosi “non mi ricordo niente, non mi ricordo niente” fino al salire sul palco e, non di rado, fermarsi dopo la prima battuta. Una legge di Murphy dice che studiare in camerino due minuti prima dell’esecuzione porta regolarmente alla stecca, ma è ancora presto per insegnargliela.

Gli allievi sono di tipologie fisse, solitamente.

L’allievo giudizioso tuttogiusto

Educato, preciso, non sempre estremamente dotato ma votato al sacrificio, studia musica secondo uno specifico planner familiare, suona tutto giusto ma sbaglia sempre lo stesso passaggio (lo sbaglierà anche sul palco) e non ha emozioni. O meglio, le ha ma solo se esce dallo schema (tipo, dimentica il libro a casa, non è riuscito a studiare, tutte cose normali in un altro ragazzino ma che per lui equivalgono ad una tragedia). La madre solitamente non parla con l’insegnante. A meno di non volersi vantare dei successi di figli (e della madre “ai suoi tempi”).
I suoi libri non sono mai sciupati, li tiene aperti con le mollette.

L’allievo dotato

…che per una strana congiuntura astrale, non studia mai una mazza. Ha la testa altrove, è disordinato, perde la concentrazione e porta l’insegnante a quasi pregarlo di ripassare a casa, un poco, ogni tanto. Ha una primavista spettacolare, che gli salva il didietro ogni volta, un buon orecchio, capacità incredibili associate a studio quasi nullo. Solitamente le ipotesi di carriera sono due: si folgora e trova il modo di studiare con piacere (sempre poco ma in modo funzionale), oppure inciampa in un saggio/concerto disastroso (per il suo standard) e molla tutto. I suoi libri sono spesso spiegazzati (arrotolati, con macchie di ogni tipo), la pagina dello studio non rimane mai aperta sul leggio. Arriva sempre, sempre, in ritardo.

L’allievo appassionato

Adora il suo strumento. Ascolta tutti i dischi, legge le biografie dei grandi solisti, studia come un matto. Ha qualche problema di ritmo, odia il sei ottavi, non è intonatissimo ne’ particolarmente sincronico con le dita. Bisogna spiegargli le cose da diverse angolazioni, perché spesso la prima spiega non funziona, ha bisogno di continui input su come studiare ogni passaggio. I libri sono pieni di annotazioni, cerchi, diesis di salvezza. Inizia lo studio e si ferma alla prima battuta per ricominciare di nuovo almeno una ventina di volte. Un diesel insomma. Fa una fatica bestia a fare ciò che l’allievo dotato fa a prima vista, ma spesso arriva molto più in là. E’ quello che arriva sempre in anticipo, talmente in anticipo che spesso studia già anche lo studio successivo. Ai saggi combina spesso mezzi disastri per l’ansia, ma alla fine è quello che più riempie d’orgoglio l’insegnante.

L’allievo perennemente giustificato

Arriva in ritardo per motivazioni nobili. E’ morto il nonno (5, 6 nonni all’anno), l’incidente davanti a casa, il contrattempo incredibile (c’è da farne una letteratura straordinaria in merito). Prima di iniziare il pezzo deve chiedere qualcosa. Qualsiasi. Quando inizia suona le prime due righe ignorando gli accidenti in chiave, o aggiungendone a piacimento. E non se ne accorge finché non lo si ferma. L’orecchio non funziona, la primavista non è un granché. Se si pone la questione “non hai studiano una cippa” ricomincia la farsa delle giustificazioni fantasiose, quindi conviene mettere a frutto quell’ora di tempo senza troppe riflessioni. Solitamente è pure un peccato, ha delle doti ma se ne frega altamente. La pagina dello studio non rimane aperta, ma a dire il vero non si ricorda mai quale sia lo studio che doveva fare per casa, quindi è ininfluente.  Al saggio va con brani semplici, studiati da settembre, ma ad ogni lezione avrà accumulato un errore nuovo che si sommerà agli altri. Dimenticherà le prove, chiederà se per favore può suonare per primo perché ha un appuntamento fondamentale. Sbaglierà ma sarà colpa di chi lo accompagna. Agli esami è sempre tutta colpa della commissione.

Preparare i saggi è un terno al lotto: devi scegliere i brani a seconda di capacità, resa, tempo. La preparazione si alterna tra spiegazione millimetrica del brano, due settimane di studio, assestamento del brano (con salvifichi tagli ed adattamenti d’emergenza), prove. C’è un momento di picco nella preparazione del brano del saggio, se si sfora di una settimana (quindi se non lo ha sufficientemente assimilato oppure se è oltre la soglia della noia nel ripeterlo) siam fregati.
La penultima settimana è quella fatidica: arriva il cazziatone. Tutte le categorie degli allievi, vuoi perché arriva la primavera e ne hanno due balle di stare a casa a studiare, vuoi perché non si rendono conto che mancano solo due lezioni, sono allo stallo. A seconda di età e di appartenenza alle suddette categorie, si insiste sulla musicalità o sul passaggio ancora insicuro o sull’ansia da dominare. Oppure si minaccia di non far fare il saggio, lasciando a casa nonna e zio con la videocamera.

Al saggio son tutti belli. Le mamme son tutte sorridenti. Le nonne son parcheggiate e spesso dimenticate lì a fine saggio. Dietro il palco, il panico. Ho pauura ho pauura, nonmiricordoniente, aspettaprofquicomedevofare, chimivoltalapagina, e in ogni angolo a provare e riprovare gli stessi passaggi, incrementando la legge di  Murphy.
Per ognuno di loro il Maestro dovrebbe stare lì a vegliarli, solo loro, con il fluido miracoloso. Salgono, e il fluido ci si prova davvero a farlo passare. Iniziano a suonare, e respiri con loro, e muovi le dita con loro, e provi telepaticamente a dirgli di prender fiato, di non correre, di non esser troppo crescenti. Spesso funziona. Quando finiscono, ti cercano mentre il pubblico applaude, e allora tu sorridi, comunque, qualsiasi cosa sia accaduta. Qualcuno scenderà dicendo “ho sbagliato tutto”, allora rispondi “non è vero, comunque non dirlo a nessuno, son segreti nostri, vai a festeggiare, ne parliamo a lezione”. Altri si dimenticheranno di te, andandosene senza salutarti. E pazienza.
Poi se ne vanno tutti, e stai lì a smontare leggii, raccogliere gli spartiti dimenticati, arrotolare cavi e traslocare amplificatori. Come l’usciere che scopa via il riso davanti al municipio, mentre tutti gli altri sono al banchetto di nozze.

Magari ti riprometti che l’anno prossimo ti sbatterai meno, niente ore di prove fuori dalla lezione, studietti per tutti e basta adattamenti e trascrizioni per fargli far bella figura, facendoti smadonnare per settimane.

Poi, gli sms:
“son andato via di corsa, ho avuto un contrattempo” (L’allievo perennemente giustificato)
“ho sbagliato tutto, scusami, la terza battuta del primo movimento e poi anche il crescendo della terza eppoi ero crescente e accelleravo e…” (L’allievo appassionato)
“ciao, la prossima settimana c’è lezione?” (L’allievo giudizioso tuttogiusto)
“ho dimenticato lì lo strumento e le parti e il leggio e la giacca?” (L’allievo dotato)
“abbiamo dimenticato lì la nonna?” (La mamma dell’allievo dotato)

Ed ogni volta assale la solitudine, l’aver fatto da madre a quei ragazzetti, tenendoli per mano in equilibrio sul pentagramma, riempiendoti d’orgoglio, con poca riconoscenza. Poi ti volti, e a fianco a te c’è il volto sorridente di chi crede ancora in te, che ti dirà grazie anche quest’anno, dopo il saggio.
Dopo che l’avrai portata a casa.
La nonna.

Le regole di Robert Schumann

Le regole di Robert Schumann

(Le avevo perdute. Oggi le ho ritrovate, quasi per caso, sul blog di Heinrich von Trotta, e le riporto qui. E’ l’idea di esser musicista con cui sono cresciuta, assolutamente attuali).

 

La formazione dell’orecchio è la cosa più importante. Esercitati sin dall’inizio a riconoscere note e tonalità. La campana, i vetri delle finestre, il cuculo – tenta di cogliere quali suoni producono.

Suona con diligenza le scale e gli studi di meccanismo. Ma ci sono molti che sono convinti di poter giungere ai più alti risultati solo perché, quotidianamente, per anni, passano ore a esercitarsi negli studi per le dita. Questo è un po’ come se ci sforzassimo ogni giorno di recitare l’alfabeto il più veloce possibile, e tentando ogni volta di aumentare la velocità. Impiega pure il tuo tempo in modo migliore.

Sono state inventate le cosiddette “tastiere mute”; usale pure per un po’, quanto basta per accorgerti che non servono a nulla. Dai muti non si può imparare a parlare.

Suona a tempo! La maniera di suonare di certi virtuosi è come l’andatura di un ubriaco. Non sono questi i modelli per te.

Impara prima che puoi le leggi fondamentali dell’armonia.

Non avere paura di certe parole come teoria, basso continuo, contrappunto,ecc… ti verranno incontro amichevolmente se tu fai lo stesso con loro.

Non strimpellare mai! Suona sempre con tutta la tua attenzione e non interrompere mai un pezzo a metà.

Andar lenti e correre sono errori di pari gravità.

Sforzati di suonare bene i pezzi facili; è molto meglio che eseguire in modo mediocre i pezzi difficili.

Devi preoccuparti che il tuo strumento sia sempre perfettamente accordato.

I tuoi pezzi non soltanto devi conoscerli con le dita, ma devi saperli cantare dentro di te, senza tastiera. Devi acuire la tua immaginazione sino al punto di poter fissare nella memoria non solo la melodia di una composizione, ma anche la sua armonia.

Sforzati, anche se non hai molta voce, di cantare leggendo a prima vista, senza l’aiuto dello strumento; così la precisione del tuo orecchio diventerà sempre maggiore. Ma se hai una bella voce sonora, non perdere un solo momento e coltivala, considerandola il più bel dono che il cielo ti ha dato.

Devi arrivare al punto di poter capire una musica alla sola lettura.

Quando suoni, non preoccuparti di chi ti sta a sentire. Suona sempre come se ci fosse un maestro, ad ascoltarti.

Se qualcuno ti presenta una composizione che non hai mai visto per fartela suonare, per prima cosa percorrila tutta con lo sguardo.

Se hai finito la tua giornata di lavoro musicale e ti senti esausto, non costringerti a lavorare ancora. Meglio riposarsi che lavorare senza piacere e senza freschezza.

Quando sarai più maturo, non suonare pezzi alla moda. Il tempo è prezioso. Già si dovrebbe disporre di cento vite, se solo si volesse imparare tutto quel che di buono c’è già.

Con dolci, biscotti e leccornie non si fanno crescer uomini sani. Il cibo spirituale, come quello materiale, deve essere semplice e corroborante. I maestri ce ne hanno provvisto in quantità sufficiente: attieniti a ciò che da loro ti viene.

I pezzi virtuosistici mutano con il tempo; l’agilità ha valore soltanto quando serve a fini superiori.

Non devi in alcun modo diffondere le composizioni brutte, anzi devi contribuire con tutte le tue forze a tenerle fuori dalla circolazione.

Le composizioni brutte non devi suonarle affatto, e neppure ascoltarle, a meno che ti costringano a farlo.

Non puntare mai sull’agilità, sul cosiddetto virtuosismo. In ogni pezzo tenta di produrre l’effetto che il compositore aveva in mente; di più non si deve fare; tutto ciò che va più in là è una deformazione.

Devi giungere a sentire una vera ripugnanza per qualsiasi cambiamento apportato ai pezzi dei buoni musicisti, come anche ogni omissione o qualsiasi abbellimento alla moda. Sono questi il più grande oltraggio che puoi fare all’arte.

Se devi scegliere quali pezzi studiare, chiedi il parere di chi ha più anni di te, così risparmierai molto tempo.

A poco a poco devi arrivare a conoscere tutte le opere più importanti di tutti i maestri importanti.

Non ti far trarre in inganno dagli applausi che i cosiddetti grandi virtuosi spesso riscuotono. Aver l’applauso degli artisti deve avere per te più importanza dell¹applauso del grande pubblico.

Tutto ciò che è di moda passa di moda, e se continui a coltivarlo negli anni diventerai un bellimbusto che nessuno tiene in considerazione.

Suonare molto in società porta più danno che vantaggio. Studiati bene chi ti trovi intorno; ma non suonare mai qualcosa di cui nell’intimo tu abbia a vergognarti.

Non perdere mai un’occasione di suonare insieme con altri, in duo, in trio, ecc… Servirà a darti scioltezza e slancio nel tuo modo di suonare. Tenta di accompagnare spesso dei cantanti.

Se tutti volessero essere primi violini, non riusciremmo mai a mettere insieme un’orchestra. Giudica perciò ogni musicista in rapporto al posto che occupa.

Ama il tuo strumento, ma non cedere alla vanità nel considerarlo lo strumento supremo e unico. Ricorda che ve ne sono altri, e altrettanto belli. Ricordati anche che vi sono i cantanti e che nel coro e nell’orchestra si manifesta l’aspetto più alto della musica.

Man mano che cresci, frequenta sempre più le partiture e sempre meno i virtuosi.

Suona con tutto il tuo impegno le fughe dei vecchi maestri, soprattutto quelle di J.S.Bach. Il Clavicembalo ben temperato dovrebbe essere il tuo pane quotidiano. Allora diventerai senz’altro un bravo musicista.

Fra i tuoi compagni cerca sempre quelli che sanno qualcosa più di te.

Riposati dai tuoi studi musicali leggendo con attenzione buona lettura. Vai all’aria aperta appena puoi!

Dai cantanti, uomini e donne, si possono imparare parecchie cose, ma non credere a tutto quel che ti dicono.

Anche al di là delle montagne ci sono persone che vivono. Sii modesto! Ancora non hai inventato o pensato nulla che non abbiano già inventato o pensato altri prima di te. E, se così invece fosse, lo dovresti considerare un dono del cielo, che devi condividere con altri.

Per guarirti da ogni boria e vanità, non c’è cura più rapida che studiare la storia della musica, aiutandosi con l’ascolto dal vivo dei capolavori delle varie epoche.

Un bel libro sulla musica è “Sulla purezza dell’arte musicale” di Thibaut. Leggilo spesso, negli anni che ti aspettano.

Se passi davanti a una chiesa e senti suonare un organo, entra e mettiti ad ascoltare. Se poi hai la fortuna di poterti tu stesso sedere a un organo, prova la tastiera con le tue piccole dita e rimarrai stupito dinanzi a quell’immane potenza della musica.

Non perdere mai l’occasione di esercitarti sull’organo; non c’è strumento che sappia vendicarsi con tanta prontezza di tutto quel che può esserci di impuro e impreciso sia nella musica stessa sia nel modo di eseguirla.

Cerca di cantare in coro, soprattutto le parti interne. Questo ti renderà musicale.

Ma che cosa significa essere musicali? Non lo sarai certamente, se tieni gli occhi fissi ansiosamente sulle note e così vai avanti faticosamente sino alla fine del pezzo; non lo sarai certamente, se ti blocchi e non sai andare avanti, magari perché qualcuno ti ha voltato due pagine insieme. Ma sei senz’altro musicale se riesci in qualche modo a intuire che cosa troverai più avanti in un nuovo pezzo che stai leggendo o se sai a memoria che cosa ti aspetta in un pezzo che già conosci; in due parole, se hai la musica non soltanto nelle dita, ma nella testa e nel cuore.

Ma come si diventa musicali? Caro ragazzo, la cosa più importante, come sempre viene dall’alto ­ ed è la precisione dell’orecchio, la prontezza nel percepire. Ma la nostra costituzione può essere sviluppata e rafforzata. E certamente non ci riuscirai se ti rinchiudi per giorni interi, come un eremita, a suonare meccanicamente un po’ di studi; mentre ci riuscirai senz’altro, se ti terrai in un continuo, vivo rapporto con le molteplici realtà della musica, e soprattutto se ti farai una buona pratica di coro e di orchestra.

Fatti prima che puoi un’idea precisa dell’estensione della voce umana nei suoi quattro registri fondamentali; studiali soprattutto quando ascolti dei cori, tenta di scoprire in quali intervalli essi raggiungono la loro massima forza e in quali altri possono essere usati con effetti più morbidi e delicati.

Ascolta sempre con attenzione tutte le canzoni popolari; sono una miniera delle melodie più belle e ti permettono di farti un’idea del carattere delle varie nazioni.

Esercitati sin dall’inizio a leggere nelle chiavi antiche. Altrimenti tanti tesori del passato ti rimarrebbero inaccessibili.

Osserva sin dall¹inizio il suono e il carattere dei vari strumenti; tenta di imprimerti nell’orecchio le peculiarità del loro timbro.

Non perdere mai l’occasione di ascoltare una buona opera.

Venera l’antico, ma va incontro al nuovo con tutto il tuo cuore. Non covare pregiudizi verso nomi che non hai mai sentito.

Non giudicare una composizione al primo ascolto; ciò che ti piace in un primo momento non è sempre il meglio. I maestri vanno studiati. Molte cose ti diventeranno chiare soltanto quando sarai nella piena maturità.

Quando dai giudizi su delle composizioni, distingui bene se appartengono all’arte o hanno soltanto un fine di intrattenimento dilettantistico. Alle prime dà tutto il tuo appoggio; dalle altre non lasciarti neppure irritare.

“Melodia” è il grido di battaglia dei dilettanti ­ ed è vero che una musica senza melodia non è musica affatto. Ma devi capire bene che cosa intendono quelli per “melodia”: per loro le uniche melodie sono quelle facili da ricordare, con un andamento ritmico piacevole. Ma ci sono anche melodie di ben altro genere, e ti basterà aprire Bach, Mozart, Beethoven perché ti vengano incontro nelle loro mille varietà: sicché si può sperare che presto ti verrà a noia la misera uniformità delle altre melodie, in particolare di quelle dei recenti melodrammi italiani.

Se ti metti al pianoforte cercando di costruire delle piccole melodie, è già una bella cosa; ma se un giorno quelle melodie ti verranno da sole, senza bisogno del pianoforte, rallegrati ancora di più, perché vuol dire che è vivo in te il senso interno della musica. Le dita devono fare quel che la testa vuole, non il contrario.

Se cominci a comporre, sviluppa tutto nella tua testa. Solo quando avrai in mente un pezzo compiuto, provalo sullo strumento. Se la tua musica è venuta dall’intimo e così l’hai sentita, anche sugli altri farà lo stesso effetto.

Se il cielo ti ha donato una fantasia viva, ti capiterà spesso di sedere per ore al pianoforte come incantato, e di voler esprimere il tuo mondo interno in armonie. Allora ti sentirai attratto in un cerchio magico da una forza tanto più misteriosa quanto meno chiaro magari è ancora per te il regno delle armonie. Sono ore felici della gioventù queste. Ma intanto guardati bene dall’abbandonarti troppo spesso a un talento che ti induce a dissipare forze e tempo seguendo una sorta di gioco di ombre cinesi. Il dominio della forma, la capacità di articolarla con nettezza si possono raggiungere soltanto grazie al preciso segno delle note. Preoccupati perciò più di scrivere che di improvvisare.

Tenta di procurarti non appena puoi le prime nozioni dell’arte del dirigere e osserva spesso i buoni direttori d’orchestra; permettiti pure di dirigere in silenzio insieme a loro. Ti darà chiarezza.

Abbi pratica della vita, come anche delle altre arti e scienze.

Le leggi della morale sono anche le leggi dell’arte.

La diligenza e la perseveranza ti faranno ascendere sempre più in alto.

Con una libbra di ferro, che costa pochi centesimi, si possono fare migliaia di molle da orologio, che valgono centomila volte di più. Quella libbra che hai avuto da Dio devi saperla utilizzare fedelmente.

Senza entusiasmo nulla riesce bene nell’arte.

L’arte non è fatta per conquistare ricchezze. Cerca soltanto di diventare un artista sempre più grande; tutto il resto verrà da sé.

Soltanto quando la forma di una composizione ti sarà veramente chiara, anche il suo spirito diventerà chiaro.

Forse è vero che soltanto il genio può capire totalmente il genio.

Qualcuno disse che il musicista perfetto dovrebbe essere in grado di vedersi davanti agli occhi, come sulla partitura, un pezzo per orchestra ascoltato per la prima volta, fosse anche molto complesso. Questo è il punto supremo che possiamo pensare.

Non si finisce mai di imparare.

Robert Schumann

Come trovare una buona insegnante di canto (e non aver più scuse)

Come trovare una buona insegnante di canto (e non aver più scuse)

Avete deciso che il karaoke ferragostano ha svelato definitivamente la vostra indole canterina, indi tornate dalle ferie e decidete di trovarvi una bella scuola di canto, e di fare il cantante. O magari solo metter su un gruppo con i vecchi amici del liceo. Oppure solo studiare musica, per il piacere di imparare, di dedicarsi ad una passione che vi fa star bene.
Proviamo con qualche piccolo input utile per ottimizzare la vostra ricerca dell’insegnante perfetto per voi.

1. Come per molte cose, l’esperienza di amici e conoscenti può esser utile. Non tutti sbandierano a chiunque che studiano musica, magari perchè non più giovanissimi, per timore d’esser presi in giro, o magari solo per difendere un proprio spazio di intimità. Ma se ne parlate e chiedete in giro, sicuramente troverete chi vi darà indicazioni e dritte su dove poter andare a parare. Quindi, chiedete, vagliate. Trovate informazioni, anche su internet: però bada, non giudicate una scuola dal suo sito… molte non hanno bisogno di investire in un portale perchè funzionano bene senza, mentre spesso chi vende fuffa deve infiocchettarla per bene su web…

2. Preferite la scuola all’insegnante privato, soprattutto se siete alle prime armi. Una scuola può offrirvi molti insegnanti diversi, un ambiente stimolante, contatti con altri allievi (anche adulti, eh, è tipico iniziare a studiare musica quando i figli sono ormai grandi, o si va in pensione..) ed attività parallele, come musica d’insieme, teoria e solfeggio, oltre ai saggi. E’ fondamentale, soprattutto per un cantante, avere più possibilità possibili di confrontarsi col pubblico. Spesso una scuola consente di lavorare con una band, magari di allievi stessi, e non con le solite INEDUCATIVE basi.

3. Se volete studiare canto lirico, cercante un insegnante di lirica. Se volete studiare canto moderno, scegliete un’insegnante di canto moderno. Le due impostazioni, sebbene con elementi di base comuni, sono differenti. L’uso della voce, dell’espressività, e la conoscenza del repertorio è troppo diversa. Spesso i docenti di canto moderno hanno studiato anche lirica (come me d’altronde), certo. Ma è anche vero che i docenti di lirica non hanno studiato anche canto moderno, e no, non sono al “livello superiore” per cui possono insegnare tutto. Ad ognuno il suo. Siate ligi, perché nell’impostazione della voce nulla è più deleterio di mille informazioni ed indicazioni a far confusione.

4. Valutate la vostra insegnante, sul piano umano. Dovrete affidarle il “vostro” strumento, quindi deve avere la vostra piena fiducia. Una docente con molta esperienza è ovviamente preferibile, nulla come gli anni di lezione ci insegnano come gestire una didattica complessa come quella del canto: uno strumento che devi suonare, senza vederlo!
Se non scatta il feeling, non mollate: semmai chiedete di cambiare docente, in una scuola spesso ci sono più insegnanti di canto. Magari una meno brava può avere un approccio che più vi si addice, ed avere migliori risultati.

5. Come spesso accade, non è detto che un bravissimo cantante sia un eccezionale docente. Anzi, chi ha avuto difficoltà conosce più tecniche, più esercizi, più metodi per risolvere delle difficoltà della voce che poi possono aiutare nella didattica. C’è chi insegna musica svogliatamente, concentrato nella propria carriera. Tuttavia, siate comprensivi se vi spostano la lezione ogni tanto, per i loro concerti: meglio un insegnante che è in contatto continuo col palco, che una maestra in pensione.

6. L’ideale è una cantante-musicista. E’ una definizione sottile, che i musicisti comprenderanno bene…. è notorio che le cantanti sono spesso le “ignoranti” della band, forse per un’antica comoda credenza di ritenerle immuni da ogni obbligo di conoscere la musica, in quanto già debbono pensare allo spazzolarsi i capelli… Scherzi a parte, se volete davvero un insegnante completo, che sia anche musicista: vi potrà così accompagnare al piano (evitando le dannate basi!) insegnandovi davvero a cantare, vi daranno gli input armonici elementari per dialogare con una band, vi insegnerà la musica, e non il karaoke.

7. Se avete occasione, andate a sentire i saggi: comprenderete il clima della scuola, i mezzi, la collaborazione tra i docenti. E, consiglio spassionato, se la maestrina di canto toglie il palco agli allievi (e purtroppo succede spesso), meditate bene sulla scelta: un docente che ha bisogno di farsi vedere sul palco dei saggi degli allievi, al netto della dovuto protagonismo caratteriale del cantante, non so quanta attenzione potrà concentrare sulla vostra, di carriera.

8. Scappate dagli insegnanti “guru”: cercante un insegnante che vi faccia da mamma chioccia solo finché è necessario, per poi esortarvi a prendere il volo da soli. Certo, spesso la maestrina diventa amica e psicologa, ed a volte è anche utile didatticamente, per sciogliere inibizioni che si riversano nell’esecuzione musicale. Ma il guru no, il protagonista dovete sempre essere voi, il vostro maestro è solo il vostro trainer. Ricordatevelo.

9. Per lo stesso motivo, è un trainer, non uno che fa miracoli: il miglior maestro rimanete voi stessi. Se non studiate, nemmeno il miglior docente del mondo riuscirà ad insegnarvi qualcosa. Certo, anche il solo andare a lezione una volta a settimana, come hobby, come momento di relax nella settimana può essere una scelta. Ma sappiate che ciò che si impara con l’inerzia è davvero poco… conviene studiare. Poi è molto più divertente!

10. Una volta trovato il docente giusto, dovete fidarvi. Se vi dice che quel brano non va bene per voi, è fortemente probabile abbia ragione. Se quella tonalità è impossibile, idem. Se la nota cala, probabilmente cala. Ogni cosa che l’insegnante vi dice è spesso una scelta oculata dell’informazione, magari per isolare un problema alla volta. Se insiste sul fatto che quella nota è sbagliata, probabilmente ritiene sia più grave della pronuncia sbagliata del testo inglese. Tutti nasciamo “cantanti”, quindi insegnare il modo corretto di gestire un timbro, o il sostegno, o la frase musicale, è una riabilitazione di cose che già abbiamo imparato a fare. E’ più complesso che iniziare da zero, ad esempio, di suonare uno strumento, ed allo stesso tempo più facile, in quanto alcune cose le sappiamo già fare fin da bambini.

11. Siate costanti nelle lezioni. Pensate alla musica come ad un allenamento sportivo: dedicate tempo allo studio ogni giorno, approfondite gli argomenti delle lezioni. Seguite il vostro trainer vocale e non fate i furbi: anche se non ve lo dirà chiaramente, lui ha scoperto tutto già dal primo vocalizzo….  E possibilmente, non cambiate docente in continuazione. La chiarezza è fondamentale, avere mille insegnanti che vi dicono cose differenti vi manderebbe in confusione e basta. Semmai, allargate le conoscenze e studiate (è assolutamente fondamentale per un cantante!) uno strumento, magari armonico, come il piano o la chitarra.

12. Ed infine: cantate. Fate i cori ai saggi, trovatevi un gruppo di amici con cui formare un gruppo amatoriale, o fatevi accompagnare da un amico con la chitarra. Ascoltate di tutto, cantate di tutto, anche i brani che non vi piacciono. Traete insegnamento dagli altri colleghi di corso, guardate i video dei live su youtube, imparate dai grandi cantanti, non solo per scegliervi le canzoni. Il miglior insegnante siete voi, si diceva.

Se avete ancora un dubbio, se magari state cambiando idea, se magari arriva la riflessione “ma figurati, alla mia età… ma son ridicola..”, toglietevela di testa. Ho allievi che han passato da mo’ i 50 che mi danno soddisfazioni immense.
Se invece siete giovani, e volete arrivare a X-Factor… beh, iniziate a studiare. Forse poi avrete ambizioni ancor più belle.

Cantare, e studiare canto, può essere un’esperienza personale di scoperta, di crescita, oltre che di soddisfazione personale. E fa bene, all’ego, alla propria timidezza, al proprio orecchio musicale (che migliorerà esponenzialmente) ed alla propria cultura.

Secondo me, poi, vi divertirete un sacco.

Oh, fatemi sapere!

…come imparerai a cantare.

…come imparerai a cantare.

E così Lei digita il titolo su google, e ci aggiunge “lyrics”. Trova il testo, fa per stamparlo ma le appare l’ologramma della sua maestrina di canto, che aborra i testi con tutti i banner pubblicitari intorno.

Poi prende la base da YouTube, ignora il foglio del testo e si legge le parole sul video, e “studia”. Studia il pezzo. Stile karaoke. E ne è sicura, è il modo giusto. Veloce, pratico, soddisfacente, poco faticoso. “Ottimizzato” per un’esecuzione senza variabili.

Lei, e non solo lei, costruisce castelli di carta pensando di abitarci. E si perde il mondo strardinario e poetico dell’architettura.
E che già il mondo del canto ha così sfortuna di avere un solo filo da seguire, con sillabe che nascondono, sotto, le note, ritmi, le estremità di armonie, senza che la voce li lasci carpire.

Quando poi Lei entra in classe, col suo foglio lindo e la sincera convinzione di esser pronta, alla prima domanda banale della maestrina spalanca gli occhi, come se davvero le si stesse chiedendo un altro argomento, su cui non si è preparati, non si ha studiato.
Piano piano le parole del foglio si mettono insieme, si spostano ballando da un lato della struttura all’altro, e diventano frasi, e sensi, e colori.
Parole che stavano lì ad attendere che qualcuno le raccogliesse ed intonasse con attenzione, sillaba per sillaba, come strumento appoggiato sul tavolo, già accordato.

Ed ogni fiato, a regolare il ritmo della storia, che ora prende tutto un significato che prima era confuso, da quella frettolosa ignoranza pigra di chi viaggia in treno, leggendo il libro senza mai guardare il mondo scorrere fuori dal finestrino. E si perde le cose disegnate dal tempo.

La maestrina appoggia gli accordi sul piano, svestendo la canzone con delicata decisione, e lascia l’ultimo suono col pedale, attendendo che Lei attacchi. L’indecisione, la lieve rabbia per non esser messa a proprio agio, con la base rassicurante che è tanto comoda. E poi attacca, il foglio tra le mani e parole che aveva visto, ma mai osservato. E che strano, dicevano un sacco di cose diverse ora. E salivano, e scendevano come a dipingere un immenso paesaggio attorno.

E non c’era bisogno di spiegare il crescendo, il diminuendo, lo stringere le frasi fremente di arrivare ad esplodere nel ritornello, già, quella cosa che Lei prima ripeteva quasi annoiata, tutto uguale. Il ritmo sotto, quasi un paio di rotaie solide a portarla avanti. E un cuore che batte forte, e quasi la commozione per la propria voce, e per tutte cose che non aveva ancora conosciuto.
Ogni tanto chiude gli occhi, allunga le note e le vibra, ed appena perso il controllo spalanca le palpebre per timore d’essersi “persa”, dentro le note.

E piano piano, finendo l’ultima delle parole, chiudendo l’ultima delle frasi, con dentro il fiatone di chi aveva compiuto una grande impresa, attende l’ultimo accordo del piano, sparire.

E così oggi ha imparato  cosa vuol dire, cantare.