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Si, è un brutto momento.
L’aria che respiro in ufficio mi strozza. "Tu la stai prendendo male, sta’ tranquilla…."; me lo dicono, e me lo dico da me. E un’udienza si avvicina, e si avvicina Natale, e la scadenza del contratto, tutti insieme. E non la vivo bene, tutta sta minestra piccante che mi si sta rovesciando addosso.
Per anni sono stata bersaglio della crudeltà della famiglia del mio ex marito. Lo sono tuttora, sebbene rincuorata dalle recenti battaglie vinte. Ora, il mobbing in ufficio non mi ci voleva. Non potermi difendere, e non volermi difendere, per non crollare anch’io nel pettegolezzo d’accusa reciproca, perchè "il nostro lavoro è la miglior difesa".
Vorrei il confronto diretto, il coraggio di dirmi le cose in faccia. Mi piacerebbe il ring, il mio carattere lo acclama, ma ancora una volta il contendente non ne è capace, ed è per me più sano e maturo lasciar perdere. A’ voja. Vorrei che mi si controllasse, che verificassero, che mi mettessero un chip addosso per controllare ciò che faccio. Vorrei essere, per una volta nella vita, scagionata dal pettegolezzo invidioso altrui.
Molti anni fa, facevo l’agente di commercio. Un giorno, durante una conversazione telefonica con la sede milanese, mi accorgo di un registratore vocale, acceso, sopra la libreria. Il mio capo di allora voleva scoprire se, come infatti avvenne, mi avrebbero chiesto di licenziarmi da li per seguire direttamente la sede centrale. Subdolo, mi spiava. Presi il registratore, delusa, offesa, e rabbiosa. Misi indietro il nastro, e registrai le due ore seguenti alla telefonata. Un mese dopo, sebbene non ne avessi avuto intenzione prima di quel fatto, accettai la proposta dei milanesi. Non mi fidavo di loro, ma molto meno della mia agenzia.
E a distanza di diec’anni, mi chiedo perchè non ho ancora imparato, ad aspettarmi cattiverie dai colleghi. E a riderci sopra.