Vagava nella nebbia dei pensieri, continuando a fare le sette cose insieme, organizzata, programmata, complicando per rendere tutto un po’ più perfetto. Io non sono perfetta, si diceva, ma devo fare tutto perfetto, perché son femmina, perché son bionda, perché devo essere credibile. Doveva crollare nel cuscino, la sera, affondandosi nella soffice convinzione di aver “combinato qualcosa” durante il giorno, senza averne mai abbastanza. Confondeva i giorni, andava a tiro di sguardo sulle ore che aveva davanti, prendendo una cosa alla volta, apatica sebbene sempre prestante, ferma ma in continuo movimento d’inerzia.
A volte il fiato si fermava per un istante. Le domande, l’autopsicanalisi, il guardarsi da fuori. Le appariva se stessa a vent’anni, seduta sul bordo del letto, a fissarla, a chiederle se tutto ciò che avesse fatto si sarebbe concluso nei compromessi. Dopo tutte le battaglie, le lacrime e le urla, i proclami di donna libera e sfacciata, la cattiva ragazza. Un po’ si vergognava a farsi vedere così, da quella ragazzetta imbronciata, forse non era quel che avrebbe sperato di diventare, eppure ne aveva raggiunti di risultati, ah sapessi, sapessi. Eppoi sti anni non li dimostro.
La ragazzetta storceva il volto di fianco, incazzata ed incredula. Non aveva parole, solo rabbia, forse vergogna, di certo delusione. Vedeva attraverso la carne, entrava in un labirinto di specchi e scuse, facendosi largo nelle scuse e motivazioni di carriera, di conoscenza, di virtù.
E la gioia? La gioia, l’ebrezza di un amore che ti infiamma la testa, il caldo del sangue che scorre troppo forte, l’ubriachezza di passione? Quelle cose in cui la ragazzina sguazzava, costruendosi ogni giorno un nuovo straordinario guaio, con la liquida sensazione di essere viva. Qual è il rischio di vivere, ora, in mezzo alle 7 cose fatte insieme, senza dover pensare al resto, senza guardarsi in faccia e smettere di non amare più il contenitore di se’. Come fosse l’unica condizione per uscirne, e allora okay, rimango qui al sicuro, e non penso.
Guarda che ci ho provato, ma è complicato, io non ce la faccio più con le complicazioni. Sapessi gli amici che ti tradiranno, sapessi, e le delusioni che ti squarteranno, sapessi. Meglio il profilo basso, meglio ricordarsi i tempi andati e non rischiare più. Perché mica vale la pena, quando diventerai grande lo capirai. Si può essere costantemente mediamente contenti, invece che in quel luna park di dolci e pugnali.
Che poi, basta riprendersi e riprendere a respirare, l’istante passa e si riprende il treno del giorno. E riempirà la mente di cose che soffocheranno tutto il resto, l’azzardo di essere sconvolgentemente felice, l’ardire di sconfiggere la pigrizia del cambiare le cose. Mediamente contenta, sufficientemente soddisfatta. Senza pensare. Assolutamente senza pensare.
Giulia camminava su un lungomare sconosciuto, una sera di tarda estate. La gente le passava accanto senza vederla, era un trionfo di tristezza trasparente. Era corsa via, era scappata da lì. Sarebbe scappata anche oltre, sarebbe venuta via subito, voleva tornare a casa, rivoleva la sua vita. Perché tutto quello non se lo meritava. Camminava, senza meta, a telefono spento, a connessione col mondo interrotta. Il mondo ad una velocità, intorno, e lei immobile e trasparente, a passo lento.
In testa aveva vergogna, vergogna di essersi cacciata in quell’inganno, cosciente e svestita di ogni armatura, facendo da bersaglio, da vittima sacrificale. E la menzogna, il raggiro, e in tutto ciò la vergogna di non essersene accorta in tempo. Adesso non aveva più le forze nemmeno di pensare, voleva solo scappare il più lontano possibile, dimenticare tutto, azzerare tutto. Avrebbe voluto dire al suo cuore che non era un motivo abbastanza importante per spezzarsi. Avrebbe voluto dirsi da dove ripartire. Mesi dopo si sarebbe detta che era la cosa migliore che potesse capitarla. Perché a volte serve farsi male, frantumarsi, per poi capire che bisogna andare oltre, riprendere la propria strada senza cambiarla solo per far felici gli altri. Sti cazzo di altri, per cui era sempre così preoccupata, per cui avrebbe fatto qualsiasi cosa, a voler pagare pegno per chissà quali crudeltà avesse mai fatto nella vita. Un pezzo di Giulia continuerà a camminare, invisibile, su quel lungomare, a contare i pezzi, e quell’altra prenderà la nuova strada, la nuova consapevolezza, a tratti la serenità di abbandonare il vecchio io. Forse. Perché ciclicamente tornerà, e brucerà tanto. Soprattutto quando avrà di nuovo quella sensazione lì, di non essere abbastanza. Che se me lo dicevi prima, io stavo anche a casa. Stavo a casa.
Spinse su allungando le gambe, ripiegandole per scendere. Storto, impacciato, slegato, ridicolo, finché il movimento non iniziò ad agevolarlo. Pian piano prese velocità, si alzava sempre giù, nell’ebrezza del raggiungere le nuvole, nell’angoscia di tornare indietro, all’inferno.
Ogni giorno così. Pensava spesso che forse poteva saltare giù, al volo. Si chiedeva se attendere il momento in cui fosse in alto, per partire via, o se attendere mentre era in basso, bene in bolla, rischiando però di esser travolto via dal movimento. Pensava spesso, ma poi rimaneva lì.
C’è più coraggio nel rimanere a galla o a buttarsi giù? Nel frattempo le nuvole lasciavano spazio al cemento, e poi di nuovo cielo, e poi di nuovo terra, l’aria in faccia, la spinta indietro. Per un istante si vide da fuori, il suo completo buono a stropicciarsi sull’altalena troppo piccola, il polsino candido a sporcarsi con la ruggine delle catenelle, le mani avvolte e strette in paura e vertigini accumulate da mesi, da anni. Si vide da fuori, voleva abbracciarsi, voleva picchiarsi, voleva ignorarsi. Cristo, alzati da lì e fai qualcosa. Anzi no, alzati da lì e non fare più niente altro. Ma alzati, alzati da lì.
Il dondolio, senza spinta, rallentava. “Dovrei andare da uno bravo”, si disse. Hai fallito, amico mio, riprendi i cocci e smetti di romperti per i motivi sbagliati. Molla, molla, per Dio. Allenta la cravatta e le aspettative.
Ormai era fermo, in bolla. Scese al volo, incespicando, rialzandosi con quei tre passetti di corsa ridicoli di chi mente, di chi vuol darla a bere, di chi finge di non essersi fatto niente.
Le tasche erano piene di biglietti di autostrade sbagliate, altre spine che tornavano a bruciare nel petto, in mezzo il telefono. Scorse il numero, lanciò preciso il sasso, saltando con un piede solo nella rubrica, evitando i bordi delle linee dolorose. E chiamò quello bravo.
Fai la lista delle cose che non vanno, un mattone sopra l’altro, tutto attorno. Talmente concentrato a non dimenticare nulla che non hai più la forza di pensare a come arrampicarlo, quel muro, a come andare oltre.
Potresti prenderne uno alla volta e toglierlo di lì, distruggerlo, e via andare. Ma come lo sguardo ci si posa sopra, così si ingrandisce, gigante, pesante, immenso, immobile, orribile, volgi lo sguardo altrove, ti terrorizza. E così non lo affronti, ti siedi in un angolo, in terra, la testa fra le mani, gli occhi spenti.
Non reagisci più. Lasci solo che il tempo scorra, senza più parole, senza musica, senza aria, senza sole. Senza motivi. Senza una briciola che valga la pena raccogliere per ricominciare.
Non senti nemmeno il rumore, non senti nemmeno il silenzio.
E non ti rialzi, non ci provi nemmeno più. Non chiedi nemmeno aiuto. Non attiri nemmeno l’attenzione. Scompari, dietro l’immagine di te, spegni gli occhi, spegni l’anima, spegni tutto.
Ecco quello che è successo, ora che ho smesso di suonare.
Ringraziando il cielo questo luogo ha perso popolarità. E’ tornato nell’ordine del “scrivi perché hai l’urgenza di scrivere”, senza dover rispondere alle aspettative di alcuno.
Ho pensato a lungo di farne podcast, di allargare la platea, ma davvero, che cazzo me ne frega di allargare le platee. Tutto è folla, è ripieno di voci e parole e bei concetti che scompaiono in 12 ore. Ho smesso di fissare anche la musica che creo, rimane lì, grumo di accordi e suoni e parole, che risuonano nella testa e nel piano e nella stanza, che vivono finché li sto vivendo, scomparendo dopo poco. Come il cibo, tanto curato solo per darti un istante di godimento, come la passione, che vivi un istante e poi ne vivi il ricordo, senza che alcuna parola possa davvero descriverlo appieno. E no, non c’è bisogno di condividerne nulla.
Ho l’età e la stanchezza di non dover dimostrare più nulla. Niente doveri, niente obblighi, niente cortesia per i convenuti. Il tempo perso per gli altri, la sindrome da capoclasse, da mamma chioccia, da vittima sacrificale per la collettività, tutti cazzo di fardelli che mi sto scrollando di dosso. Le scelte sono due: o sto scivolando in una solitudine senza fine, oppure sto passando al successivo livello. Secondo me, la seconda.
Sto superando le cose. L’accettazione del lato oscuro, la mia crudeltà e infedeltà di affetti, l’unica cosa che allo specchio mi fa riconoscere. Ed alleluia, aggiungo.
Quante azioni e parole sono schiave dell’abitudine, della consuetudine? Salutare, apprezzare, essere cortesi e riconoscenti, servizievoli e buoni. Non deludere le aspettative. Non riuscire a dire di no, senza pensare al proprio bene ma mettendo sempre davanti il bene degli altri, ma non per bontà, sia chiaro: solo per il benessere di sentirsi “buono”, solo per l’illusione che se dai bontà ed attenzione poi… ti verrà restituita a tempo debito.
A tempo debito col cazzo, ovviamente. Se avessi voglia di psicanalisi direi che è ancestrale, o legato all’infanzia, o all’insicurezza di se’, ma ho studiato musica: è solo noiosamente una abitudine, una consuetudine. Sei talmente abituato ad aver sto istinto da brava ragazza che insisti quanto più non ti va di far qualcosa, come se ti galvanizzasse l’idea di forzarti a qualcosa che non senti, immolata all’altare dell’altruismo e dell’amicizia.
E che mi ha dato l’amicizia? Badilate sui denti. Peccato che c’è differenza a prenderle a sorpresa oppure piazzarsi sì, sorridenti, perfettamente in parabola del badile, ben pettinati e ansiosi di prenderla bene, quella badilata. Il modo ideale per poi potersi degnamente lamentare.
Poi, bon, l’apoteosi è prendersi le badilate dai chiunque, dai nemmeno conosciuti, dagli inutili. Ma anche qui, la divisa da Wonder Woman che difende gli inetti (sconosciuti anch’essi magari), soggiogata dal difendere vuoi le idee, vuoi la cultura, vuoi l’idea di qualcun altro (perché mi faccio trascinare da idee non mie?).
Ed io mi son annoiata di lamentarmi. Preferisco un limbo silenzioso e solitario, senza obblighi e senza pericoli. Senza sentimenti, anche. Dei sentimenti poi non ho mai nostalgia, ne ho della passione, semmai. Ma anche lì, mi muovo e faccio danni. Danni che poi, again, mi specchio e mi riconosco. Mi specchio, mi riconosco, c’è del benessere nel riconoscermi così. Così come il killer che gode nell’uccidere.
Considerazioni sparse sulle lezioni di musica col plexiglass:
– per indicare la battuta sullo spartito uso un puntatore laser. Il gatto ora è sempre inspiegabilmente interessato alle lezioni.
– a volte si avvicinano troppo col flauto e ci vanno a sbattere: penso che metterò quegli adesivi con gli uccelli che volano, stile barriere in autostrada
– quando suonano/cantano benissimo, appoggiano la mano sul plexiglass, sopra la sagoma della mia. Devo comprare un interfono e agganciarlo a lato, come i colloqui delle mogli coi carcerati
– l’apertura della mia mandibola quando canto supera di gran lunga le possibilità della FPP2, penso che mi doterò di casco alla Darth Fener. La famosa tecnica della “voce in maschera”.
– di solito tengo il “metronomo” battendo sul leggio con la bacchetta da direzione. ora potrei provare a farla passare attraverso un foro del pannello, tipo endoscopio.
– disinfettare il plexiglass (obbligatorio, dopo ogni allievo) è come pulire un vetro con l’olio solare. Non sono aloni, è proprio il test di Rorschach.
Non è che non ti ho riconosciuto, mi ricordo benissimo chi sei. Mi ricordo dove ci siamo conosciuti, dove abiti, che lavoro fai, moglie/marito/figli, eccetera. Magari (purtroppo) so pure chi voti e a che livello da 0 a Leghista sei. Magari abbiamo studiato insieme, o eravamo nella stessa compagnia, o nella stessa squadra di pallavolo, o magari eravamo vicine di casa, compagne di giochi, o nello stesso consiglio di classe da genitori o da insegnanti (o da studenti). O peggio: siamo colleghi. Ci vedevamo alla macchinetta del caffé, grado di intimità da uno a 5 palle (di zucchero). E mi spiace, ma anche no, che sia stata maldestra nell’evitare di incontrarti frontalmente, entrando a caso in una ferramenta, nascondendomi dietro ad una fioriera, facendo all’incontrario le scale mobili, ripetendo in lingue desuete d’essere straniera e non capire l’italiano. Non è che ti ho evitato per sbaglio. E lo so, lo so che l’ultima volta che ci siamo visti siamo pure usciti a cena a parlare “dei bei vecchi tempi”. E pure al telefono, due anni fa, e mi hai anche commentato tanti post sui social, ho scritto “grazie infinite” ai tuoi auguri di Pasqua “e famiglia” inoltrati su Whatsapp.
Ero diversa, paziente, tollerante, educata.
Abbi pazienza. Ma io e te, cosa abbiamo in comune? Perché devo parlarti? Perché devo stare lì a “ma ciao come va a casa i figli la nonna il lavoro EH SI’ LA CRISI IL COVID MA SEI INGRASSATA AH ANCHE IO MA SE CI CHIUDONO DI NUOVO EH TERRIBILE MA IO SAI CHE” ma anche no, ma anche basta. E’ colpa mia, non sei tu, come in ogni relazione. Sono io che non sopporto più la gente, e perdonami, tu sei la gente. E il mio tempo libero è poco, io sono abbastanza stronza, invecchio tantissimo e divento intollerante, mi annoio subito, sono pure molto, molto maleducata perché non sopporto più i discorsi che mi annoiano. Davvero.
Ti posso dire che è il Covid-19 che mi ha cambiata, se ti fa piacere. Sta cosa del non potersi abbracciare per salutarsi “dopo tanto tempo” è davvero una benedizione, che poi mi presentavi marito e figli e suocera e dovevo salutarli e baciarli tutti venti volte. E’ proprio il contesto di tolleranza che è cambiato, te lo dico, la vecchiaia sicuramente è la motivazione principe. Ho poca RAM disponibile per poterla sprecare in discorsi d’ascensore. Quindi come va, bene, fine, stop, niente commenti sul meteo. Non è che il fatto che ci conosciamo implichi il fatto che dobbiamo per forza parlarci e frequentarci.
Credimi. Ora, spero di averti irritato a tal punto da pensare “oh beh, chi ti credi di essere”, perché è vero, non ho nulla da raccontarti di interessante nemmeno io. Ma zero proprio. Ho solo racconti di grotte, lunghe, buie, soffocanti, angosciose, strettissime, con infiniti dettagli di fango, sudore, pericoli, panico, paura, claustrofobia. E pure foto, e video, in cui ti sembra di essere ingoiato in un tugurio di rocce e fango e buio e pietre e freddo e prima o puoi muori. Ecco. Vedi te. Io, fossi in te, mi ignorerei volentieri.
Affettuosamente, Flauta.
Come seguire decentemente una lezione di musica online (come allievi)
Studiate privatamente con un Maestro di pianoforte bravissimo, ma arriva la pandemia. Siete in una scuola di musica per seguire lezioni di chitarra parrocchiale, ma arriva la pandemia. Oppure arriva la pandemia, ma voi vorreste prendere lezioni di cornamusa per sconfiggere la depressione. Che la solitudine, con la cornamusa, sarà già assicurata,
Per questi e altri motivi state approcciandovi con le lezioni online di musica, che no, non sono come le lezioni scolastiche, hanno problematiche diverse. Quattro consigli snocciolati così, dopo qualche mese di intense lezioni con i miei deliziosi adepti del piffero, mi sento di donarveli.
Come attrezzare la postazione
LA RETE
Non ho alcun consiglio certo. Per mia esperienza, va a culo. Potete avere un 56k, la fibra, abitare in un megacondominio o in mezzo ad un campo, non ci sono certezze. Possibili idee per ovviare la cosa: usate l’Ethernet evitando il wifi, scegliete una frequenza diversa del wifi, usate la rete dati, hackerate la rete del vicino. Fate delle prove, consapevoli che comunque all’ora di lezione sarà sempre un mistero perché ora va e ieri no e viceversa. In ogni caso: fate un bel respiro e abbiate pazienza.
AUDIO
Non usate, possibilmente, cuffie e microfoni bluetooth: aumentano la latenza. (La latenza è IL MALE). Procuratevi degli auricolari buoni e semmai una prolunga per poter suonare più comodamente (e consentire al vostro docente di vedervi per intero). Verificate di avere il microfono (sempre degli auricolari) attivo: verificate siano selezionate le giuste periferiche nelle impostazioni del software che utilizzate, Skype, Zoom, eccetera. I cazzo di AirPods ficcateveli in quel luogo lì. Hanno un audio vergognoso (e voi state facendo una lezione di musica, non giocando a Minecraft).
Versione Pro: Microfono esterno, e magari audio del pianoforte/audio del computer (per sample o simili) via mixer collegato a scheda audio.
Consigli ulteriori: sigillate porte e finestre, evitate rumori inutili, inclusi quelli di fratelli/figli/parenti/vicini di casa. Quando non suonate, state fermi, zitti, non tamburellate le dita sul microfono, non suonate se il docente vi sta spiegando qualcosa: il vostro audio “inutile” coprirà il suo e saranno minuti di lezione persi.
VIDEO
La webcam del portatile va benissimo. Altrimenti, webcam appiccicata da qualche parte. Cercate di avere la ripresa frontale, il docente potrà verificare la vostra postura in modo corretto e avere una visione completa dello strumento.
Versione pianisti: una seconda cam (anche utilizzando un telefono) che riprenda la tastiera sarebbe ottima cosa. In caso non fosse possibile privilegiate la tastiera, ovviamente. Consiglio ulteriore: se utilizzate il telefono, fissatelo ad un qualsiasi supporto, anche con un elastico ad un leggio, un’asta, un manico di scopa. Perché il telefono cadrà, oh sì, e andrà in mille pezzi. Alternativa: utilizzare papà e mamma. I figli invece dopo un po’ si rompono le balle e spostano l’inquadratura verso le braghe del pigiama.
A proposito di pigiama:
5 COSE (importantizzzime) DA FARE PRIMA DELLA LEZIONE DI MUSICA
UNO: Togliete il pigiama e vestitevi come si deve. Rifate il letto dietro di voi, riordinate la scrivania. Pettinatevi, santodio.
DUE: Prendete TUTTI gli spartiti che serviranno alla lezione. E’ mai possibile che tutti, proprio tutti, diciate al minuto due “Ah sì, ho preparato lo studio, aspetta che vado a prenderlo di sopra…”. E va di lusso che sia solo lo spartito. Vi scordate anche il flauto nell’altra stanza. Quindi preparate per bene tutto: le sonate, gli studi, le scale, i testi dei brani, il quaderno pentagrammato, il Bona, quel che serve.
Consiglio per allievi bravizzimi: io ho già molti spartiti in agevole pdf per poter dare indicazioni specifiche su un passaggio da ripetere o una nota sbagliata direttamente a video, tramite schermo condiviso. Se state facendo brani di cui il vostro docente non possiede la partitura, scansionate o fotografate il brano e inviateli al docente (utile una bella cartella su drive condivisa col docente, con tutti i vostri brani dentro).
TRE: Altre cose da tenere pronte:
– il leggio (mollette incluse)
– la matita e la gomma
– un quaderno per appuntarvi eventuali suggerimenti
– un’altra matita, perché quella di prima l’avete persa da qualche parte e adesso che vi serve dovete interrompere la lezione e andare in giro per casa a cercarne una, quindi aprirete la porta e vostra figlia urlante penserà che la lezione è finita e inizierà a gridare chiamandovi con appellativi non lusinghieri mentre vostra moglie vi ricorderà di pulire meglio il water quando andate in bagno (sempre con seimila decibel) mentre ormai avete svelato al docente il famoso pantalone consunto del pigiama (ve lo avevo detto, non dite che non ve l’avevo detto).
QUATTRO: Verificate che software, app e qualsiasi altra cosa funzioni. Rischiate di perdere 10 minuti di lezione per il “eh non mi si apre, aspetta, ma usiamo zoom, ah no, aspetta che mi dice di aggiornare, sta riavviandosi, aspetta che creo un account…”. Perché succede. Sempre.
Altra cosuccia: togliete le notifiche audio di WhatsappWeb, TelegramWeb, mail, social vari. Il cicalino che suona mentre state eseguendo l’Adagio di Mozart dal concerto per clarinetto e Orchestra, con tanto sentimento e trasporto, implica che siete dei cialtroni. Non siate cialtroni.
(che numero era? ah sì) CINQUE: Registrate la lezione. Potete farlo agilmente e potrà darvi due momenti importanti didatticamente parlando:
– la depressione e lo scoramento di come esca un suono di merda dal vostro strumento tramite queste grandiose piattaforme
– una visione da fuori di come suonate, la vostra postura, la reazione a consigli e critiche, oltre a recuperare tutte le indicazioni che vi ha dato il vostro docente (perché durante la lezione ne avrete sentite il 70%, ascoltate il 50%, messe in pratica il 20%) (percentuali assolutamente messe lì a casaccio).
Vi vedo abbacchiati: su, sappiate che il vostro docente ha enormemente più problemi di voi (e non solo su questo argomento) per adattare la lezione frontale di musica alle possibilità e limitazioni della videochat. Però si può fare, almeno per ora, per l’emergenza, per poi sfruttare l’esperienza fatta per sfruttarla in altri momenti in cui non si può uscire di casa (malattia, infortunio, allattamento, fuga all’estero, trasferimento alle Bahamas).
Fine vademecum. In caso abbiate suggerimenti, i commenti servono a questo.
Aborro i messaggini, gli auguri, le decorazioni natalizie, ma sono nata in un ambiente di convenevoli obbligatori e quindi fate finta che a me piacciano un sacco gli (no, non mi piacciono, pace).
Comunque: questo periodo sta volando via e ho una robetta natalizia da condividervi, fatta con gli amici del Montegrappa Tandem Team.
Marta (mia compagna di classe al Liceo e trombettista meravigliosa) mi ha/ci ha coinvolto in sta cosa (incredibile, non sembra si trovino musicisti che vogliano lanciarsi col proprio strumento appesi al parapendio) e ci siamo attivati a tal proposito con arrangiamentino del Paolo (imparato a memoria o incollando lo spartito alle gambe, come ha fatto Ivan…), auricolari con bpm preciso, strumenti legati e simpatia che lèvate.
Insomma, una roba bella. Figa. Non noi che suoniamo, ma il lanciarsi in parapendio.
Il concetto è: fatelo. Fate le cose che vorreste fare, trovate chi le farà con voi, fatele da soli. Fatele.
Troviamo sempre tempo per pulire il mobile sotto il lavandino, quello dietro il secchio della spazzatura. Per rispondere al telefono allo stracciamaroni che non vi mollerà per ore. Per la cena con amici con cui non hai più nulla in comune. Per struccarvi la sera perché NO OKAY QUESTO NO (io amo i panda).
Ebbene io ho deciso di trovare il tempo di fare le cose che mi va di fare, non ho tempo perché spreco tempo, ma non ammetto che è tempo sprecato perché aggrovigliata dai sensi di colpa del “devi fare”. Ma de che, de che.
Libertà. Vivete davvero liberi, liberi da voi stessi e dalle vostre paranoie.
E tanti cari saluti eccetera eccetera.
Ho aperto quella parte buia ed arrabbiata, ho iniziato a guardare tutto, leggere tutto, rivivere e bruciare quanto potevo, tentando di accettare di dover convivere per sempre con molto altro.
Non è un cazzo facile.
Ogni minuto mi dico di star facendo una enorme cazzata, più grande di me. Era meglio prendere e starne lontana, lontanissima, dimenticando e basta, come quelle zuppe che si bevevano negli alberghi dell’Est, ci si diceva sempre di prendere col mestolo la minestra senza mescolare, per paura di ciò che poteva venir a galla.
Dio santo se ne vengono a galla, tante cose. E non puoi condividere, non puoi parlarne, perché ti senti noiosa da sola.
Eppure ce n’è una marea, di cose. Ci sono immagini che scorrono, parole e azioni che vorresti scacciare, e che invece senti che sono parte del tuo essere, tramandate da una stirpe stronza. C’è tutta una serie di sentimenti che arrivano, ti sconquassano, li affronti e dirimi, li superi ed archivi. Un respiro e niente, ne arriva un’altra sporta, e da capo.
E io con quella mania di voler essere capita e consolata, e vederne le ragioni ovunque, incastrate in un’infanzia senza bei ricordi, in un’adolescenza in cui l’unica gioia era scappare, ecco, io sto ancora a dirmi “Nessuno mi ascolta, nessuno capisce”. E’ che in effetti è così, chi cazzo vuoi che capisca. Sei uscita da lì, ma mica grazie a qualcuno, mo’ affronta questa merda e vedi di reagire, alla svelta.
Quando entro in quella casa, per quanto io stia cercando di render tutto diverso, ogni millimetro mi prende a schiaffi. Son schiaffi che colpiscono la carne viva, esattamente dov’erano arrivati la prima volta. Le porte, le porte le ricordo solo quando le sbattevo per andarmene via. E le finestre, le finestre.
Mi ripeto che faccio la cosa sbagliata, ah okay, l’ho già detto. Ma magari fa bene ripetermelo, e dirmi anche “non ce la faccio”, perché lo dico sempre, quando non riesco a risalire, ma poi esco.
Certo, servirebbe il Sandro che sta lì in silenzio ad aspettare che io prenda fiato. Oppure un integratore di quelli belli tosti. O concentrarmi sulla birra, all’uscita.
O magari, l’illusione che questo viaggio schifoso serva a qualche cosa.
Ecco. Secondo me tutta sta merda non mi serve a niente. Ma proprio a niente.
E allora, levigo i pavimenti, i mobili, tolgo la polvere e la rabbia, la cattiveria, l’odio. E in mezzo tolgo anche le cose belle, ed è forse il prezzo da pagare. Non riesco a sognare o programmare un cazzo, non mi viene nemmeno la stoica ironia. Non ho più voglia nemmeno di suonare.
Il dolore serve, dicono. Serve a far rinascere le cellule della felicità, dicono. E certe cose devi affrontarle, così dopo anvedi come stai meglio, dicono. In fondo ho preso una non-decisione, ho accettato il minor dei mali, ho abbracciato la resilienza, per pigrizia o per sopravvalutazione delle mie energie. Ho accettato la non-fuga, condita di numerosi “ma cosa cazzo stai facendo”, come se la mente dicesse una cosa e il corpo ne avesse proseguita un’altra, un automa masochista e incosciente. E senza una cazzo di luce alla fine del tunnel.
E quindi, quindi niente. Continuiamo sta cazzo di cosa. Tutta, completamente, sbagliata.
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