Sfogliato da
Categoria: senza categoria

sul serio

sul serio

Giulia scherza troppo, e poi non la prendono sul serio.

 

I prof dicevano che era ribelle, macchè, voleva solo mettersi in mostra. Aveva forse bisogno di rassicurazioni, o un abbraccio materno, o amicizie sincere. Mentre invece, era ebbra di conoscenze qualsiasi, buone a non stare soli nel traffico, e ad abbandonarti quando sprofondi dentro qualcosa.
Passava le sue giornate senza saper dove andare, senza una passione precisa, era un di tutto un po’. Era fiera di essere “del gruppo”, essere cercata, invitata, scelta. Di lei si innamoravano i timidi e gli indecisi, con lei limonavano quelli più belli, ma senza troppo trasporto. Nemmeno sapevano cosa avesse dentro. A chi interessava, cosa avesse dentro.

 

Giulia scherza troppo, e poi non la prendono sul serio.

 

I suoi ventanni erano un turbinio di emozioni. Ogni cosa capitava, la faceva fluire, ci si immergeva, studiava, senza sapere cosa davvero volesse. Ogni giorno una passione diversa, un percorso, un obiettivo, cambiava idea, cambiava bisogni, li cambiava perchè ne bastava uno, uno a caso, uno al giorno. Non la sapeva la sua strada, una valeva l’altra. Di lei si innamoravano quelli travolti dalla sua allegria, e quelli più grandi, che vedevano sotto la frivolezza, che la dicevano intelligente, prima che bella, e che soffrivano dei suoi capricci. Lei si perdeva invece con quelli belli, vuoti e noiosi, ma buoni a farla sentire superiore, invidiatissima. Sapeva farsi notare in una piazza affollata, ed odiare da ogni donna entro sei metri.

 

Giulia scherza troppo, e poi non la prendono sul serio.

 

Quando le si strinse attorno il cuore, Giulia prese le sue cose e cercò di ricomporle. Ne vide tante, che non sapeva di avere. Decise di aggiustarle, e di prendere coraggio pian piano, buttando via il resto. Solida, decisa, sapeva dove come cosa. Era diventata grande, adesso. Aveva dentro cose da dire, dimostrare, era “speciale”. Ma non riusciva a farsi capire, sembrava ormai tardi. Addosso le insicurezze di una modella all’esame di maturità, di una secchiona alla lezione di ginnastica, del balbuziente alla prima dichiarazione d’amore. Di lei non si innamora nessuno, ma la apprezzano, la stimano, come una gran bella statua, che sta li, a farsi ammirare finchè c’è pubblico nella sala.

 

Giulia scherza troppo, e poi non la prendono sul serio.

 

Ammorbidita dagli anni, comprensiva con le sue debolezze, vivace per sciogliere le paure. Quante paure, Giulia. Due parole, “superficiale”, il suo terrore, “mediocre”, la sua morte. Troppa allegria, forse, troppo frivola e leggera, lei che leggera non è. E’ sulla strada che vuole, eppure inciampa, di continuo. Ora deve essere “intelligente” a tutti i costi, deve dimostrare, deve farsi valere. Ma inciampa. La droga di una conquista di un minuto, vendersi per una carezza breve, mettersi alla prova li, dove sa che vince ad occhi chiusi una partita semplice. Giulia non sa amare, che non riesce ancora ad amare se stessa.

 

Giulia scherza troppo, e ora non sa più a prendersi sul serio.

venerdì di natale

venerdì di natale

Il venerdì prenatalizio è storicamente dedicato ai festini dell’ufficio, e la titolare qui non ne esce indenne nemmeno quest’anno.

C’è una sorta di euforia, di solito. Torni a casa un po’ brilla, con un notevole mal di testa da prosecco, lo stomaco che rigurgita canditi e pezzi di torrone, e zucchero filato impiastricciato sulle braghe.

Ma c’è la crisi, e la guerra dei poveri.

Solo mercoledì eravamo tutti li, col naso sulla bacheca, a leggere l’articolo del Gazzettino con tutti gli stipendi, e soprattutto con gli “extra” e premi vari, dei dirigenti. E hai visto quello, e quell’altro, e quel terzo, e quello è indagato, e quello non sa fare un cazzo, e quello è sempre a zonzo. E bla, bla. Che le cifre sono imbarazzanti, trecento mila euro l’anno per uno che firma, alla fin fine, alla cieca quello che viene preparato, studiato e smaronato da un pirla da mille al mese (magari precario), che si sbatte con l’utente, coi colleghi, con carte e leggi. E che si prende le battute sui “fannulloni” dagli utenti, che tanto poi mandan la cesta al direttore. Che poi, non dico un panettone e una bottiglia al suo ufficio di ignavi dipendenti, ma dico… almeno una mail d’auguri.
Macchè.

E’ un momento assurdo, qui. Tutti contro tutti, dipendenti contro precari, precari di serie A contro precari di serie B, i perdenti dei concorsi interni (tipo seicento persone per quattro posti, per un aumento netto di 100 euro al mese..) che non si rivolgono lo sguardo ormai da mesi. Pacchi di richieste di mobilità e trasferimento, litigi e urla in corridoio, pianti, “non ne posso più” ripetuti in refrain. Tutti chiusi in quel meccanismo allucinante chiamato Pubblica Amministrazione.

Io mi ripeto, e ringraziando il cielo che non sono alla Fiat, o qui nelle fabbriche a Porto Marghera, o in una qualsiasi azienda con tagli di personale o fallimento, o un commerciante stritolato da calo dei consumi e raddoppio degli affitti. Io son fortunata, che il mio stipendio, almeno non me lo toccano.

Dicevo, i festini. Oggi erano tre. Tutti in uffici diversi, la porta chiusa, inviti “personali”. Sarcasmo, su “quelli del corridoio di là”, o su “quello che ha invitato solo quelli che gli fan comodo”, e via. Mi vien spontaneo pensare all’anno scorso, una festa unica, tutti insieme. Ah no, era due anni fa… anche l’hanno scorso feste distinte…

Io, per mia fortuna, sono un jolly. Forse ho un ruolo che “è bene tenersela buona”, o forse son simpatica, o almeno inoffensiva. Però, questi auguri così colmi di ansia, di preoccupazione, di intolleranza, come se si fosse costretti a far festa perchè uno tra tutti decide di andar oltre e aprire un panettone.

Una giornataccia, ecco.

Stamane, mille telefonate, viavai continuo di gente, che deve chiudere tutto prima di Natale, aprire cantieri, fare rogiti, definire fideiussioni… e tanti che rinunciano, quando hanno aperto la pratica non ci pensavano, alla crisi economica.. ed ora, non c’è più un soldo.

Beh, oggi l’ennesima telefonata, sempre l’urgenza assoluta, e io a indicare un solito modo estremo per ridurre tempi tra  notifiche e pagamenti e quant’altro, dopo aver cercato di sistemare la sua pratica barcamenandomi tra burocratese e meccanismi amministrativi demenziali. Con una pazienza che non mi è propria, ammetto.

“..ah senta. Volevo dirle. Non è mica vero che siete fannulloni. Lei è così gentile, mi sta risolvendo tutto mentre potrebbe dirmi di aspettare gennaio e fine. Eppoi è cortese e mi rispiega tutto, ecco, quel Brunetta là è proprio uno scemo, sa, ma mi creda, io posso dirlo, e lo dico ai miei amici spesso sa, che ci sono molti comunali come lei…”

Così. Fulmine a ciel sereno.

Ringrazio, mi dico che due parole così valgono molto più del panettone del direttore. Nel mio piccolo, chissà, sto rendendo un Natale migliore anche a quel povero Cristo di cittadino o piccolo imprenditore, che può portar avanti le sue cose.

Ecco. Un brindisi silenzioso, con una bottiglietta di SanBenedetto, al signor (ah, chi si ricorda chi fosse….), che passi un buon natale. Il migliore possibile.

tanto passa.

tanto passa.

Capiterà, un giorno, che non ti penserò più.

Un giorno qualunque, tra qualche tempo. Un giorno di sole tiepido, o bagnato di pioggia, tra le lenzuola fresche della domenica, o davanti ad un paesaggio qualunque, un rimando banale, un dettaglio, che ne so.

Mi accorgerò, forse risentendo il tuo nome, che sei scomparso dalla mia mente da tempo. Scoprirò di aver scordato il tuo volto, la tua voce, e cercherò invano di ricordarli, ricomporli. Non saprò più i dettagli, non ricorderò quanto brillassero i tuoi occhi, la linea delle rughe, le smorfie della bocca. Non saprò come fossero state le tue mani, le tue spalle, quanto lunghi erano i tuoi passi, quanto veloci o lenti fossero i tuoi gesti.

Dimenticherò le canzoni, scorderò le battute, non saprò nulla dei nostri discorsi, delle prese in giro, e delle cose belle che ci hanno visti insieme. Tutto scomparso, senza clamore, solo sommerso dalle onde del tempo.

Chissà, un giorno non saprò più il motivo per cui ti ho lasciato. Ti vedrò solo come uno “non adatto a me”, come qualcosa senza niente di speciale, senza la nebbia della passione vedrò tutto chiaro, vuoto, semplice, e banale, nella sua reale dimensione. Anzi, mi chiederò sdegnata perchè non mi ero svegliata, “quella volta”, invece di tirarla sempre troppo lunga.

Le sofferenze diverranno indolori, i torti e le bugie, mi sarebbero indifferenti. Mi sentirò senza sentimento. Non proverò nulla. Un vuoto assoluto, senza malinconia, rimorsi, o dolore.

Mi direi… ma pensa te, non ci pensavo più da un sacco di tempo. Chissà che fa, dove va, chi vede, se mi pensa mai… se mi ha mai amata, ma si, o forse no… E mi direi, infine, che non me ne importa nulla, alzando le spalle con sufficienza, e riprenderei a fare le mie cose.

 

Un giorno. 

mondo 2.0

mondo 2.0

Scrivo poco, dormo nei tratti disponibili, tengo le pubbliche relazioni del mio quotidiano, incessantemente, con ogni mezzo tecnologico a disposizione, oltre a rari istanti vis à vis, tra un qualcosa e un qualcos’altro.

Mangio male, spesso dimentico di incastrare la voce “nutrirsi” e rispondo meccanicamente all’intimazione del mio fisico, e inserisco del carburante a caso.

Mi rilasso, col perenne senso di colpa di “perdere tempo”. Pulisco casa improvvisando, faccio lavatrici da automa, e non seguo l’asciugatura dei capi. Li vedo apparire sul termosifone di casa, e ricomparire asciutti mentre li stiro (son io che li stiro, penso) ma non me ne capacito. Che mentre faccio questo, sono appena uscita dalla doccia, ho il sugo nel microonde a scongelare e sto correggendo un compito di matematica del nano. Che diventa un problema asciugarsi i capelli prima di uscire per un impegno, figuriamoci un parrucchiere (bisogna pianificarlo di due mesi in due mesi), non parliamo del dire due parole con la vicina, o spendere un minuto in più al bar per essere cortese aspettando il resto da un cameriere. Dev’essere tutto concatenato, le pareti di una cosa contigue all’altra, mettendo una scala ampia di priorità, con sopra a tutte il dover fare tutto.

E mica pesa. E’ il mio quotidiano, sono programmata da anni a tutto questo. La contemporaneità delle azioni, come se la mia vita fosse una serie di finestre aperte su vari network, e io ne gestisco uno mentre ricarico la pagina sull’altro, e via così.

E’ la vita della donna 2.0, perfettamente organizzata e finalizzata alla programmazione di ogni millesimo di secondo della sua esistenza. Che se passa una mattina a letto, a cazzeggiare sotto le lenzuola, si alza tardi vergognandosene, e arranca fino a sera sentendosi una fannullona.

E che soddisfazione quando si riesce a unire tutto, come perfetto meccanismo torni a casa ala sera sapendo di aver fatto tutto. Tutto come? Bah, benino, abbastanza, ma almeno l’hai fatto. Un pressappoco.

Io mi chiedo. Come diamine faremo a creare un’opera d’arte, la musica del secolo, la poesia più struggente, senza poter trovare il tempo per trovarla, pura e disinquinata dalla fretta, l’ispirazione.

rimpiangendo il mio compagno di sbronze

rimpiangendo il mio compagno di sbronze

 

Ho bisogno di una sbronza.

Ma una gran bella sbronza. Di quelle consapevoli, un crescendo rossiniano di alcoolici.
Quelle sbronze con amici fidati. Che non ti ricordi un cazzo il giorno dopo. E fortunatamente, nemmeno loro.
Una sbronza. Fissa. Che parti quasi normale, scherzi, ridi, dici cazzate. Sei eccentricamente allegra. E poi arrivi al punto che tiri fuori le paranoie. E “parliamo dei miei problemi”. E tiri fuori quelle cosucce che hai in saccoccia, le metti li sul bancone, le guardi bene, e…  e….. e…… e ti ricordi perchè le avevi messe in saccoccia. Sogni, problemi, uomini.

Ma poi. Guardo il mio libretto universitario. La foto del mio bimbo. La ricetta per la gastroscopia.

Non posso permettermelo. Soprattutto per l’ultimo motivo. Vita grama-grama vita.

The verde, tiepido, oste. Grazie.

non disponibile

non disponibile

Connetti. E lancia un segnale, nell’aria.

Lanci parole, e non torna l’eco. Hai cento utenti, o amici, o avatar. Tutti online, tutti dettagliatamente indicati, li. Le notifiche, i gruppi, gli ip. Da anni sono un ip. Siamo tutti, un ip. Una statistica, un reader, e noi non scriviamo parole, non gettiamo urla in cerca di risposta, ma feed.

Io scrivo feed. Non emozioni, non sfoghi d’anima tormentata, non grida d’aiuto, conforto, o solo inviti ad un sorriso davanti ad uno schermo.

Se salgo su un pullman, una metro, o sono al binario in attesa del treno, l’amico, il conoscente, è li con me… e mi saluta. Passa con me il tragitto, come stai, come va, che potrei leggere o dormire, ma preferisco dirti, parlarti, ascoltarti. Guardare il tuo viso, le tue smorfie, ascoltare la tua voce. E ritrovare un’intimità da amici.

 

Mentre qui. Ho mille mezzucoli per ritrovare amici, conoscenti, chiunque. Per mesi ci abbiamo li, in una lista infinita di nomi, una frase inutile accanto al nick, e su quello basiamo la nostra quotidianità. “Ah si, l’ho visto su msn… si, mi pare stia bene”. Ma cazzo ne sai.

Tutti, in eterno “non disponibile”. Ci sono, ma non rompere. O meglio. Se poi rompi, ti rispondo, ma intanto.

 

Soli, nel web, in cerca di un eco. Non disponibile.

abituami, abituati.

abituami, abituati.

E svegliandosi, si accorse che si stava abituando, a non dormire sola.
Aprire gli occhi, tenendoli chiusi. Aprire la mente, togliendola dalla culla del sonno, e sentire i rumori nella stanza come parte della realtà. E sentire il suo abbraccio, come fosse una cosa normale. Logica.

Stava li, consapevole che i minuti del mattino scorrono più veloci, e la colazione, e vestiti, e traffico, e semafori, e code, e timbra in tempo. Ma era incapace, incapace di muoversi, stretta all’abbraccio, al calore dell’essere in due. Svegliarsi, e ricordarsi che di là del letto qualcuno ha scelto di rimanere qui, non per una banale motivazione ormonale, ma solo per dormirle accanto, mescolarle i respiri, accarezzarle i capelli come fosse una cosa sua.

Senza discorsi, senza promesse bugiarde, semplicemente li.

E per quella mattina, il gusto dolce dell’abitudine le è piaciuto un sacco.

una flauta in pretura.01

una flauta in pretura.01

www.cuatro.com/.../images/videos/chaseg.jpg

– … mi rendo conto che è un tipo affascinante… ma io volevo un avvocato capace. Non belloccio.

-…. capito.

 

Ho cambiato avvocato. Un mese prima dell’ultima udienza. Mi gioco l’ultima carta.

 

Insomma. Lo so che magari una bottarella gliela si poteva dare, prima.

E qui ci siamo io, e te.

Io che non oso andare qui o la, te che mi aspetti, pronto a suonare, silenzioso, ma pieno di note. Basterebbe soffiarti dentro.

E’ che io mica lo so bene, come soffiarti dentro. Perchè te lo suoni bene tutto, basta dirti e tu suoni. Sei talmente avanti che mi salvi in corner, quando butto un giù un dito invece che un altro.

Ma capiscimi, sarà che siamo a casa dei miei stamattina. Che ieri stavo male, e son arrivata a casa per miracolo, anche se dovevo andare a dormire da lui, ma stavo così male. Avrei voluto che i miei vecchi, per una volta, mi stessero vicino. La tisanina, una copertina, un “oh ma che hai?”. Macchè. Guardavo un coso su Hiroshima alla tv, che poi era quello che accadeva nel mio stomaco. O Il mio fegato. Cazzo ne so.

E’ che adesso dovremmo studiare, io e te, dovremmo tirar fuori delle note decenti, ho un sacco di cose da studiare. Finchè il nano è a messa, dico, potremmo. E invece non riesco. Che sarà che sto male, e dovrei andare a farmi vedere davvero, sarà che qui non mi riesce. Appena torna il nano, andiamo a casa nostra, li andrà sicuramente meglio. In questa casa ci son troppe cose che mi urtano, la mia infanzia, la mia adolescenza, o la mia “adultezza” mista al menefreghismo dei miei. Minchia, ogni tanto sarebbe bello, “ma come stai, com’è andata lezione, non stai bene? dici sia il caso che andiamo dal medico? ti preparo qualcosa?”. Oddio, il must sarebbe una carezza, ma mica lo sanno cosa siano le carezze qui.

E te, te le carezze mica me le fai. Sei come un bel purosangue arabo, bisogna saperti tener le redini senza infastidirti in bocca, esser decisi e sicuri di ciò che si vuole.

Ah, io mica lo so cosa cazzo voglio. Ieri a lezione ero entusiasta. No, sono tuttora entusiasta. Non so a chi cazzo dirlo, allora lo dico a te, via. Trovarsi a 35 anni a fare ancora la studentella, ascoltare e capire, e chiedere, e immagazzinare informazioni, e non veder l’ora di lavorare col materiale accumulato in testa… Poi arrivo qui, da sola, con te, e non so trovare le energie. Ora potrei fare un bell’esercizio sul suono, scale e arpeggi, studiarmi qualche bel pattern, e incastrarmi in testa quel benedetto ‘Trane. Invece, son qui, a guardarti, A vedere come riposi, come “perdi tempo” disteso sul mio letto. E anch’io perdo tempo. Devo studiare. Devo costruire, devo portarmi avanti, devo preparare migliorare imparare ripassare memorizzare.

Devo. Ma lascio passare il tempo. Senza sapere fare note. Senza sapere, senza potere. 

Ti chiedo scusa. Non son proprio la flautista che ti aspettavi, ma tant’è, questa ti tocca. Dai, ti smonto, ti lucido e ti rimetto nella tua custodia di ciliegio, amico mio. Stamattina ho bisogno di autocommiserarmi un altro po’, non voglio tu mi veda così.

non piangono.

non piangono.

Le mamme non piangono.

Mandano i figli a letto, severe, e lavano i piatti. 

Fai la cartella, prenditi la merenda, lavati i denti, e adesso fila a letto, e non dimenticarti la luce accesa. Subito!

Subito. E i bimbi non capiscono.

E la mamma lava i piatti. Si versa un bicchiere di qualcosa di forte. Aspetta di poterlo fare. Aspetta di potersi rigare le guance di sfoghi silenziosi. 

Che il cuore le scoppia in petto. Che non ce la fa più. Che non riesce a sopportare tutto, e lo sa, lo sa che stasera li tratta male, i figli, ed è fredda, di ghiaccio, e lo sa che loro aspettano la carezza, la buonanotte, il bacio delle conferme. Ma non ce la fa, stasera non ce la fa.

In quella cucina confusa, vetri appannati dal vapore di una cena insipida, silenzio di immagini noiose in tv, e musica triste solo nelle sue orecchie, in quella cucina, già, quante volte. Si guarda intorno, e sulla sedia sprofonda nel girotondo dei suoi perchè irrisolti. 

Avrebbe voluto tenerlo, frenarlo, convincerlo, e ora vorrebbe poter soffrire come tutte. Come tutte le donne normali. Vorrebbe disperarsi, chiudersi ore in casa, in lutto, a finir le lacrime, a torturarsi riguardando le loro foto, cercare il profumo dei suoi maglioni, cercare un modo per darsi pace, darsi conforto, esaurire le speranze fino all’ultima goccia.

Lava i piatti, i singhiozzi coperti dall’acqua che scorre. E non si volta quando sente che non dormono, che chiedono qualcosa, che ne so cosa. Vai a dormire, è tardi, smettila con i capricci perchè hai superato ogni limite. 

Non glielo vuol dire, che mamma piange. Le mamme mica possono piangere. Stanno li, soffrono e basta, e vanno avanti. Come possono.