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Sembrava innoquo.

Siam passati attraverso twitter, distraendoci, certo. Ma poi rimandendo abbastanza fedeli ai nostri bei loluli da logorroici, che non ci stavamo dentro del tutto, su twitter, ecco.

C’era anche Myspace, ma solo per “sentirci”, e magari “vederci”.

Poi è arrivato Facebook.

E i blog son morti.

Al loro posto, casella mail intasata di notifiche di commenti (mai, dico MAI commentare qualcosa, potreste ricevere notifiche a vita!), di inviti a gruppi improbabili.

I test poi. Che non sai mai che cazzo di risultato risulta.  Devi prima inviarlo all’universo, prima.

E il tastino dell “ignora”. Che nelle prime settimane ti vergogni a premerlo, che “ma lui lo sa che ignoro? povero, magari ci rimane male…”, mentre poi vai di cattiveria, in default, non ci sarò, nun me frega un cazzo di salvare le balene, la gelmini la tromberei, e non mi frega sapere quante sigle dei cartoni animati conosco a memoria.

Chili di amici, ma amici cosa? Ma chi sei, chi ti conosce, ostia.

Ma non ne capisci il limite. Sei troppo preso dal cancellare mail di notifica, negare consensi e ignorare test.

Poi arriva il poke. Ma cosa diamine è il poke. Cosa diamine mi mandi un regalo in fotografia (e lo paghi pure, cazzo!). Chiamami, andiamo fuori, scrivimi una mail. Macchè.

Ecco. Il blog è morto. E io ho speso 30,99 euro per un nuovo dominio.

Porca troia.

dai una sberla alla flauta (che xe ben)

dai una sberla alla flauta (che xe ben)

Io adesso vorrei che qualcuno mi prendesse a schiaffi.

C’è qualcuno disposto gentilmente a farlo?

Ma anche a sberle, ma forti, davvero forti.

Ho saputo che Stef, con cui uscivo ogni tanto, si è sposato. No dico, ci siam visti l’ultima volta due mesi fa (è noto che son donna inaffidabile, ha fatto bene, benissimo) e mo’ si è sposato (“…se stavo ad aspettare te…”). Ma non è questo il punto. Okay, mi vien da riflettere che se non mi muovo, qua mi si sposano tutti.
Dicevo, non è questo il punto.

Il fatto sta che rinvango. Ho perso tempo e occasioni a bizzeffe, bevendomi mucchi di stronzate. E non ebbra (haia! questa me l’ha tirata searching, grazie) continuo a rodermi il fegato.

Ringraziando il cielo, ogni volta che mi rodo il suddetto fegato (quelle sensazioncine modello attacco d’ansia, ti si chiudono le orecchie, vedi il mondo ovattato e senti un filo spinato che ti stringe in cuore, e sti lacrimoni che stan li per traboccare, ma non traboccano mai) so bene dove cercare, e trovare, conferme al mio “hai fatto la cosa giusta, cogliona sei a non averla fatta prima”.

E’ che siamo fatti strani.

Mi siedo qua, sopra la mia montagnola. Ho passato il guado, ormai son asciutta e riposata, le ferite guarite, solo qualche graffietto (che brucia un casino, come tutti i graffietti fastidiosi). Ma non ce la faccio mica ad andare avanti. Ogni tanto scivolo (c’è un vento della madonna, su questa montagnola) e l’inerzia mi fa andare avanti. Ma diciamolo, io ci ho paura. Ma tanta, paura. Di che cazzo, non lo so, ma il sentimento è chiaro, chiarissimo. Ho una paura fottuta. Sono indecisa, ancora aggrappatissima alla mia abitudinarietà da single, dove ci sono un cumulo di equilibri (lavoro, amici, musica) che non so come render compatibili.

In sostanza, sto qua sopra come una pirla a vedere cosa succede. Seduta in terra, abbraccio le ginocchia, e guardo con occhi insulsi il resto. Come va? Benissimo grazie (sorrisetto). Sicura? Andiamo? o torniamo? Ah no, grazie, sto qua, guarda. Magari dopo. Ehm.

Cazzo sto aspettando? Vallo a sapere.

ruba in macelleria, non i soldi, ma la carne

ruba in macelleria, non i soldi, ma la carne

Così gridava lo strillone (cartaceo) fuori dall’edicola, stamattina.

Mi ha fatto pensare (avrei potuto fare altrimenti? ero ferma al semaforo..). Ora si fan le rapine per mangiare. In panificio arriverà un impiegato con la calzamaglia in testa, “mani in alto! metti tre rosette, uno sfilatino e un integrale in un sacchetto, e non fare scherzi o sparo!”. O dal lattaio “un litro di scremato, tre yogurt, e un panetto di burro. Fai quel che ti dico e non ti succederà nulla..”.

A quel punto che fai, lo denunci? Oggi a lui, domani….a me.

E questo, questo mi inquieta ben più di sta cazzo di borsa di Tokio.

come una folata di vento

come una folata di vento

L’ispirazione veniva solo con la giusta folata di vento.

Bastava un discorso, un’immagine, una sensazione, una melodia, un abbraccio. Qualcosa scattava, e subito un foglio doveva imprimere l’idea. Che ogni progetto può esser dimenticato in pochi istanti.

Chissà, forse esiste in un luogo inaccessibile un baule, un baule enorme. Dentro, le parole mai scritte, e dimenticate. La musica mai incisa, e volata via. I disegni che stravolgono l’anima a chi li vedrebbe, ma ormai cancellati dalla mente. I progetti che cambieranno il mondo, ma che per pigrizia o superficialità, non son stati portati avanti. Progetti di architettura, ingegneria, medicina, o d’amore.

Stava li, a godere di quella “folata di vento”. Forse innamorato dei suoi occhi, delle sue carezze, della sua ferma dolcezza. Incapace di dirle ancora quanto l’amava. Volendo godere solo di un suo ennesimo sorriso.

Fece le scale di corsa, entrò nel suo studio. Cercando i suoi amici del mestiere, colori e spazio bianco, versò ciò che la sua mente aveva già disegnato nell’aria.

I gesti erano sicuri, come stesse ricalcando la sua immaginazione, la mano precisa, una matita che già sapeva dove andare, la punta che sapeva dove muoversi, incrinarsi, appoggiarsi, sfumare. I colori, in fretta, datemi il colore alle mie idee.

Steso come lunghe carezze, il giallo, il rosso, l’azzurro. Un po’ di rabbia, per non saperla fare bella come avrebbe voluto. Ma lei m’ama, saprà capire. Saprà vedere oltre queste gesta d’artista stolto, insicuro, frettoloso.

Dopo un po’, come una lunga corsa, era fatto. Non un segno in meno, ne’ uno in più. Rimase lì a fissare la sua opera. Felice, era felice, di non averla perduta. Come una folata di vento, avrebbe potuta ignorarla.

E poi, e corse da lei.

E lei lo abbracciò, si commosse senza farsi vedere. E attacco quel capolavoro sulla porta del frigorifero.

la vita è una ruota

la vita è una ruota

(minchia che titolo)

 

Certo, prima era una suocera, poi ex suocera. Di vicini peggiori, intendo, ne ho avuti. 

Ma Sabrina è, a suo modo, peggiore. Perchè non ha spegazione, non c’è dissidio familiare tra noi, lei è esclusivamente “vicina”. Per la precisione, abita sotto di me. 

Sabrina avrà quarantanni, vive sola, con scritta in faccia una deludente vita sentimentale.
In sostanza, ha tutta l’immagine della zitella odiosa. Zitella non trombante.

Non fa feste, non ha amici, compra pizza o kebab il sabato sera, e se lo mangia da sola davanti alla tv. Ha una punto bianca vecchiotta, che non usa mai. Va a lavorare in corriera, in un qualcosa tipo archivio storico… e si veste, come riesce, trendy. Stendendo la biancheria qui sotto, non posso non dubitare di una che ha solo mutandine nere, oltre ad improbabili pizzi. Non ho visto reggiseni, ecco.

So che già questo inquieta. Aggiungiamo che ha il capello cortissimo, e il trucco scuro, esagerato, alla “comparsa di the day after”, per intenderci.

E alla domenica mattina, come nel pomeriggio feriale, lei ascolta Biagio Antonacci.

Io odio Biagio Antonacci. Ti sfracella gli ammenicoli, Biagio Antonacci.

 

Ha iniziato con “din don, scusa ma puoi smette di sbattere? io alla mattina mi sveglio all’alba”. E alle 20.30, mentre finivo di montare un mobile, ho sorriso “ma certo”, e va ben.

Ha proseguito con “mi arriva l’acqua sul balcone, ho la biancheria stesa”….perchè spostavo una pianta dopo tre giorni di temporale. E va ben.

Poi ho dato una sbattuta al tappeto del gabry. Facendo conto che su 4 finestre, non c’è balcone dove non stenda almeno un cuscino.  E allora va ben un cazzo. “…ma non puoi tener tappeti…” E la sbrano. Io a casa tengo quel che mi pare. Te una finestra, cazzo, una finestra me la lasci libera, per sbattere il tappeto. E non rompi nemmeno le balle.

Non se l’aspettava. Codina fra le gambe, mi evita. Se mi sente scender le scale e sta per uscire, richiude la porta e aspetta che passo. Mi evita come il male (e fa bene, miseria se fa bene).

 

Ieri però. 

Sento sbattere qualcosa, in modo ritmico, sulla ringhiera del  terrazzo. C’è molto vento, certo, ma non tanto da renderlo metronometrico. Mi affaccio dopo un po’…. e vedo la vicina che mi chiede…”senti, potresti…” ….io digrigno i denti. Tu vuoi la guerra, donna. Tu, di venerdì 17, vuol la guerra. A me il macete. 

“…potresti chiamare i pompieri? mi son chiusa fuori in terrazzo…. e…. fa un freddo cane… è mezzora che cerco di chiamare qualcuno…”

C’è la bora, fredda e implacabile. lei è in maglioncino. Il suo trucco alla Morticia Addams risalta ancor più, col bianco della prossima ibernazione della vicina. Le passo dal balcone il mio telefono, agganciandolo alla scopa. Le do anche un maglione caldo. Tutto bene? Su, mio figlio è di vedetta dall’altra parte, vuoi un’altra coperta? Tienilo li il telefono, dai, se serve richiamano…

Arrivano. Il camion rosso (nuovissimo, una cosa sfiziosissima…) si fa largo pian piano, arrivano in sei pompieri (sospiro) e provano ad aprire la blindata con dei fogli plastificati (gabry, guarda come fanno, può esserti utile come lavoro futuro..), dicendosi “oh, è la terza oggi che non s’apre”

Si arrampicano per una scala, salgono per una finestra aperta, e mettono “in salvo” la vicina ormai tendente al blu.

Mi dico, cosa non s’è inventata per portarsi in casa un uomo.

Dopo un po’, suona il campanello, mi restituisce telefono e maglione, ringraziandomi mille volte, “sono in debito, sono in debito”.

 

Ma no, ma figurati, succede, suvvia.

….e poi sono andata a comprare un tappeto nuovo .

Ogni tanto ci si guarda, a quello che c’è qui dietro. Si rimpiangono i capelli tagliati, i vestiti buttati, figuriamoci le strade abbandonate.

E io, a sprazzi, ci penso. Non ho timore di dirlo.
Un po’ per l’orgoglio che batte (ah come avrei preferito scene disperate, imploramenti e giuramenti, e minacce di suicidio… così, giusto per il gusto di), un po’ perchè, insomma, mi sembrerebbe dovuto.

Penso ad un marito che molla tutto, e quando torna dalla moglie, che aspettava da mesi quel ritorno, lei gli sbatte la porta in faccia, con gusto.

Insomma, mi volto, coi dovuti rischi di acquire nuovamente la rabbia, ma senza alcun ripensamento o rimorso o vago senso di pentimento.

E cosa vedo? Un deficiente.

Rido, e torno a guardare avanti. Che domani mi porti al giapponese. E se non fosse solo uno dei tuoi immensi meriti, ti adorerei solo per quello.

benarrivati

benarrivati

detz incredibol

ho un “coso” a mio nome.

ebbene, è un regalo di compleanno, fattomi da me stessa.

motivi vari. in primis, un cambio d’abito (si, circa, poi è sempre tutto uguale nella forma) indicativo del periodo storico. ma soprattutto una necessità strutturale, che le cazzate scritte rimarranno tali, ma più gestibili. Splinder oramai è desueto, il mio account e blog su splinder erano ormai desueti e non sarebbe proprio il caso che anch’io mi diventi una flauta desueta.

Desueto a parte…..

Quando avete voglia, modificate i link.

Ed infine, un grazie alla complice nonchè fautrice della manovalanza intellettuale per cotal cambiamento, mademoiselle xlthlx, …………e da qui, si ricomincia.

 

(che emosssione)

nessun titolo

nessun titolo

La vita vira. Te stai giorni, mesi, anni, ad aspettare quel qualcosa che ti sconvolga e rigiri le cose. Aspetti quel qualcuno con cui fare un mucchio di cose che è un mucchio di tempo che fai con gli amici invece che.

Ecco.

E aspetti, aspetti. Conosci un mucchio di perditempo, omuncoli da nulla buoni giusto a passare il tempo. E sistemi vita, lavoro, casa, cavallo e figlio. Ah si.

Come esser pronti per andare alla festa, ah si, son vestita e truccata e ingioiellata e ho un sacco di argomenti di conversazione.

Poi arriva. Squilli di trombe! Finalmente l’invito alla festa! Un invito elegante, simpatico, intrigante, passionale e soprattutto… intelligente. Che sei li che ti dici: ma sarò all’altezza?

Ecco. E io, demente, sto li sul mio divano e non mi decidevo ad andarci, alla festa. Uno aspetta, si lamenta, e si lamenta e aspetta, che arrivi. Poi arriva. E te che fai? Hai una paura blu. Di metterti in discussione, di provarci, di vivere un qualcosa di esattamente naturale.

E’ che non ci son mica abituata io, alle cose naturali, normali, belle e pulite. Io sto a casa a farmi le pippe e mi invento delle inattaccabili motivazioni logiche del menga.

– Vai e non rompere i coglioni.

Vado. Sto andando, non vedete? Vado. Dio che bello. E’ tutto vero.

la signora

la signora

Vengo spesso in agenzia di cambio. Mando i soldi alla mia familia, in Serbia, e a volte mando foto via email ai miei nipoti, di li.
Parlo bene l’italiano, anche se l’accento è ancora "biascico", come dice la signora, però se scrivo non si sente. La mia nonna era di Istria, italiana, poi con l’arrivo di Tito è scappata verso la Germania, e si è maritata con un serbo. Storia strana la mia, scappi di qui e cadi di la.
Mia mama è viva, sta bene, come l’erba cattiva, dico io. Vive con mio barba, si dice anche qui barba come zio?.. e non so bene come sia, che mio papa non c’è da tanti ani, e forse lei e il barba sono insieme, non so. Storia strana, la mia familia.

In agenzia di cambio siamo tanti che veniamo da Bashir a mandare i soldi con la vestern iunio, di Bashir mi fido, lui sa tuto di noi ma si fa gli afari suoi. Lo sa che noi siamo pecore sperdute in mezzo alla valle, e questa è l’unica fonte dove bere.

Ieri ero qui, che il mio nipote di Germania ha la mail e gli scrivo, che qui ci sono tante ucraina e moldavia e io non ho amiche, che non mi fido. Ma ho una signora che non mi parla, ma mi fa leggere i libri. Mi corege anche la pronunzia, sai.
Lei era una musicista, ha ancora un pianoforte grande nel salone che non vuole che lo pulisco col Pronto, che dice che si scivola sui tasti, ma tanto lo so che non suona più.
Però le piace se leggo. E io lo so che umore ha, se mi dice leggi questo leggi quello, io capisco cosa. Se sta male, mi dice leggi il libro rosso, che su ci sono le poesie che io non capisco, tutte lente le vuole. E poi mette su un disco che le ha mandato mesi fa un fidanzato. Lo so che è un fidanzato, perchè lei lo ascolta e piange. Che lui era più giovane, e dal notaio ha messo questo disco, da mandare a lei se moriva. E lui è morto, e lei ha un disco con una donna che canta, Gioni Miccel, e l’orchestra sinfonica dietro. Ed è bellissimo. E lei mi dice leggi il libro rosso, e io so che poesia vuole, quella degli amori senza posto dove si possono amare. E poi smetto, e lei piange, finchè il disco finisce.

Eco, io non so come è l’amore, che mia mama e il barba non lo so se sono amori così. Neanche io ho amori così, forse Bashir, che sa tutto di tutti, lui lo sa se ci sono amori così.

E ieri lo dicevo al mio nipote in Germania, che io non voglio andare li che sono tutti freddi. Che la signora mi insegna tante cose. Non gliel’ho detto, ma lei mi insegna cosa è l’amore.
Che basta vederla, per capire che è una cosa tanta.

nessun titolo

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Entra nel nuovo ufficio, con la sua camicia anonima, il pullover anonimo, un pantalone fuorimoda e degli occhiali da Clarke Kent.
Ha un nokia primo modello, che ha usato solo per avvisare del ritardo del treno, dentro una borsa ordinatissima. Ha un’agenda in cui segna le spese, l’orario di entrata e uscita, le scadenze delle bollette, il dentista dei figli.
La guardano tutti ma non la vedono, lo sguardo le passa oltre… silenziona, anonima, se le parli arrossisce. Ha una scrivania sgombra di un qualsivoglia di personale, tutto sistemato simmetricamente. E un sorriso timido, standard, a disegnarle il volto.

La penso a casa, coi figli, col marito. La penso ora qui, a sentire i discorsi spinti in dialetto stretto, di colleghi affiatati e un po’ ubriachi per un brindisi improvvisato. Penso che forse giudica male, o forse non giudica, o forse invidia.

E attendo il giorno in cui, se arriverà, scoprirò qualcosa di lei.