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I suoi saldali altissimi presi per il cinturino, la sabbia fredda su cui sprofondare i passi, una luna impegnata a voltarsi altrove, e le onde rumorose, a suonare intorno.
I ma però non so forse chissà potrebbe dovrebbe sarebbe, accumulati nell’unica chiarezza del non sapere nemmeno vagamente cosa. Cosa "cosa"? Ecco appunto, ma quale "cosa".
Il posto dorme in un limbo anni sessanta sulla spiaggia. Neon d’altri tempi collegati col fai da te, una veranda tenuta su con assi di legno sui punti deboli, che trema al vento con la tenacia d’un salice piangente. E la musica inadatta, un unico unz unz senza motivazione tangibile per luogo e situazione.
Io sto sul surf senza saper andarci, senza nemmeno sapere come andarci, senza saper nuotare nei miei dubbi, aspettando di cadere (che a rialzarmi incazzata e andarmene sbattendo la porta, son bravissima). Macchè. Non cado. Sebbene non sia il mio ruolo, che eppure mi calza benissimo.
Dondolo tra la vergogna della mia mediocrità, la modestia o falsa tale, e l’egocentrismo da bionda indomita. Se non mi volessi molto, molto bene, mi starei sul cazzo.
E mi chiedo: tutto ciò dovrei scriverlo, domattina. Per definire un sentimento, un’emozione, un "qualcosa". Per comprendere se mi sto mettendo nell’ennesimo pasticcio, o se al solito ho una nuova strada da percorrere, apritasi davanti senza che mi potessi mai opporre. E magari, perchè continuo indomita, alle tre del mattino, a mettermi sotto le lenzuola, perdendo una lacrima d’orgoglio sul cuscino, pieno di sei anni di rabbia.
Ecco, dovrei scriverlo. Uno ha un blog apposta, dico.