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I suoi saldali altissimi presi per il cinturino, la sabbia fredda su cui sprofondare i passi, una luna impegnata a voltarsi altrove, e le onde rumorose, a suonare intorno.

I ma però non so forse chissà potrebbe dovrebbe sarebbe, accumulati nell’unica chiarezza del non sapere nemmeno vagamente cosa. Cosa "cosa"? Ecco appunto, ma quale "cosa".

Il posto dorme in un limbo anni sessanta sulla spiaggia. Neon d’altri tempi collegati col fai da te, una veranda tenuta su con assi di legno sui punti deboli, che trema al vento con la tenacia d’un salice piangente. E la musica inadatta, un unico unz unz senza motivazione tangibile per luogo e situazione.

Io sto sul surf senza saper andarci, senza nemmeno sapere come andarci, senza saper nuotare nei miei dubbi, aspettando di cadere (che a rialzarmi incazzata e andarmene sbattendo la porta, son bravissima). Macchè. Non cado. Sebbene non sia il mio ruolo, che eppure mi calza benissimo.

Dondolo tra la vergogna della mia mediocrità, la modestia o falsa tale, e l’egocentrismo da bionda indomita. Se non mi volessi molto, molto bene, mi starei sul cazzo.

E mi chiedo: tutto ciò dovrei scriverlo, domattina. Per definire un sentimento, un’emozione, un "qualcosa". Per comprendere se mi sto mettendo nell’ennesimo pasticcio, o se al solito ho una nuova strada da percorrere, apritasi davanti senza che mi potessi mai opporre. E magari, perchè continuo indomita, alle tre del mattino, a mettermi sotto le lenzuola, perdendo una lacrima d’orgoglio sul cuscino, pieno di sei anni di rabbia.

Ecco, dovrei scriverlo. Uno ha un blog apposta, dico.

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Vado ad una cena.

Una macchina sola, io e il famozizzimo jazzista, e il fratello, altrettanto famozizzimo. Andremo ad una cena di famozizzimi jazzisti.

La flauta che c’azzecca? Temo farò la groupie, ecco. E dirò bestialità che scateneranno l’ilarità generale. Vabbè.

Ma vi pensate? Se ci schiantiamo sulla Romea, io apparirò sui giornali, in fianco a loro. Insomma, non sul palco, okay, non su un programma di sala. Ma su un epitaffio sul giornale. Pensa l’invidia degli amici!!

…o forse scriveranno "tizio e caio, e un’amica moldava".

Vabbè, tanto sarò morta.

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Salti, corri, esci. Versi vino nel bicchiere, sorridi a facce, spieghi discorsi nell’aria.

Sorridi, ridi, ti sganasci. E torni seria, discuti, ti arrabbi. Cazzeggi, investi, progetti. Vivi.

Poi arriva, entra nelle orecchie, ti confonde la testa. E’ una melodia, una qualsiasi, proviene da chissà dove. Ladra di respiri, ti entra sotto pelle. Ti stringe il cuore in due, fino a far uscire una goccia di ricordo, che ti scivola addosso, e brucia.
Tutto attorno, le facce, le voci, tutto è opaco, tutto è sommesso. Scavi tra i rumori quella melodia, e lasci che ti entri dentro, a corroborare i tuoi buoni propositi di essere "comunque felice". Ti lasci drogare, ti lasci uccidere da quelle note. Cullata nel dolore, nella melanconia, nel rimpianto.
E sai bene che quello, giusto quello, è il momento di non fare, non dire, non spedire. Cacciare via quelle note, e tornar fuori. Che anche quest’attacco di astinenza di amore, passa.

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La rete a maglie larghe, larghe larghe.

Accetta un concerto che non ti convince, te ne porterà un’altro, e poi un altro.

Maglie larghe.

Esci con un uomo che non ti convince, te ne presenterà un altro, e poi un altro.

Maglie larghissime.

Ricorda che gli uomini inutili sono tali solo per colpa tua. Non li sai sfruttare per ciò che rendono.

E dopo pillole di saggezza sparsa così, vado alla Biennale. Alla biennale dove una compagna del conservatorio, sedicenne, incontrò un amico di Sgarbi, che la portò fuori dagli schemi … classici. Ora è uno dei pochi direttori d’orchestra donna d’Italia. Io non ho capito un sacco di cose della vita (ma sono ancora in tempo!).

il lungo weekend etilico

il lungo weekend etilico

Carico la fedele grigia, saluto il pupo col bacio sulla fronte, e attraverso gli appennini.

Ci si risente (se il tasso alcoolico lo concederà) lunedì. Sebbene mi senta già sbronza e innamorata prima di partire.

Dovreste farlo anche voi: buttare a caso magliette in una borsa, fare il pieno alla macchina e all’ipod, e trovare un’anima gemella.

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Una lucina blu offesa, perchè il telefono è rimasto a casa lampeggiando di sms, mentre io ero a cantare dall’Amabile flauta Trio. Non è abituato a stare solo, il mio telefono. Nonostante una Pukka e la chiave usb a fargli compagnia, penzolandogli addosso.

E’ un periodo pieno di cose, persone, parole, discorsi importanti evitati, perchè ora non è tempo di disquisire, ma di lasciarli passare. Ho come bruciato il latte sulla pentola, e invece di star li a grattare l’ho messa a bagno con il bicarbonato. Si disincrosterà da sola, prima o poi, pentola e vita.

Sto condividendo ogni cosa con alcune persone. Con sguardi, con mail, e con intensi sms. Persone che fino a ieri erano si e no "buon natale" "buon anno ", per magia abbiamo allungato la mano, e facciamo un tratto di strada insieme, fortemente insieme.

Vorrei dirglielo, che li adoro. Che sono lui e lei. Ma poi penso, metti che l’uno si offenda perchè non è solo lui, e lei si offenda perchè non è solo lei.
Nemmeno avessi quindic’anni. Come se uno scambio assiduo di sms, mail, telefonate, pensieri, potesse diventare un legame talmente importante da diventar esclusivo.

Ecco. Stamattina, ridendo, leggo che lui ha lo stesso scambio assiduo con un altro paio di amici, chissà, probabilmente anche più profondo che con me. E pure lei, che se per un po’ non la sento penso si sia stancata. E che abbia "un’altra".

Sono gelosa. Gelosa dei miei splendidi amici lontani. E’ una sensazione bellissima.

 

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Cinquanta centesimi scivolano sulla spalla della gondola, scendo agile dall’approdo allo scafo con l’equilibrio nel sangue. La laguna ci culla, ci dondola. Per due foresti ondeggia spaventosamente. Taglia in due il canale verso San Tomà, il sole a tuffarsi sulle trifore dei palazzi, e tutto luccica come nel più bel film della storia. E stranamente vuota, la città ruffiana, accompagna i miei passi, la mia camiciola con le maniche a principessa, i pantaloni bianchi, Kate Bush sulle orecchie.

Mi chiedo come i turisti non sappiano mai vestirsi, a Venezia. Infradito, canotte striminzite e pantaloncini da spiaggia, e faccia ebete. Con l’afa che ti fa sudare e prender la malòra all’ombra dei palazzi, con la corrente d’aria delle calli. E le piaghe ai piedi, dopo il primo giorno.

Manifesti che incitano a sposarsi in laguna come novella Las Vegas, o a partecipare ad un concerto di un’improbabile orchestra bulgara che suona lie quiatrio stuagiuoni di vivuialdo, cocài che dominano minacciosi dalle trifore, pendolari che non alzano nemmeno la testa, che il paesaggio lo conoscono, non gli fa più effetto. Il passo veloce della Serenissima, e quello lento, perso ed ebete dei foresti.

Passo l’ultimo ponte, accanto ai giardini Papadopoli. Penso che dovrei perdonarti il fatto di avermi perdonato. Penso che dovrei perdonarmi di averti perdonato troppo. Penso che sono perdonata, ma adesso basta cazzate. E penso, perdonami, ma non ti perdono. Per dono, pèrdono, perdòno.

E mentre mi bartezzago il cervello, un trancio del ponte di Calatrava a dirmi che pure quello, prima o poi è finito. Mi sento sollevata (come un ponte). E felice (come da ponte, così fan tutte d’altronde).

 

E non importa, che mi son capita io: ho firmato oggi. Ho gli amici per brindare. Fannullona!!

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Capita che ci sono concerti e concerti.
Quelli in cui non studi, quelli che prepari al millesimo come una brava impiegata,  quelli che arrivi e ti danno fogli pieni di sigle, senza nemmeno una fugace semicroma, e li capisci che c’è lei, la cantante. E te magicamente diventi uno strumento armonico. Ci son concerti in cui nemmeno i fogli con le sigle, si e no ti mandano un sms con i titoli. E ti dicono "te svisa qua e la". Due diplomi di conservatorio, per svisare qua e là.

Poi ci sono quelli che ti frega. E anche se ti danno due euro, e magari ti devi portar la birra da casa, ci tieni, e vai in paranoia per settimane.

Ecco. Io ero in paranoia da settimane.

Uscivo con un gruppo a mio nome. Repertorio scelto da me, accuratamente, scientificamente e visceralmente mio. Da dittatore. Per dire, l’ultima volta che ho portato fuori il flauta group (all’epoca si scivolava tra il quartet e il quintet, a seconda del mio mese di gravidanza) c’era in mezzo il marito come chitarrista. Una vita fa. Diciamo pure… otto anni buoni.

Che poi, son poliedrica. Ah si. Che tradotto in parole povere, significa "di bocca buona". Ed ho suonato il jazz puro, il maistream, il latin, il free, la world music, il drum’n’bass, il funky, l’hip hop. Eppoi la classica quando capita, la fusion, e la bossa. Io adesso la odio, la bossa.
Comunque.

Sta di fatto che ci tenevo. Faccio la prova, provo con lo stoico trio. Splendidi. Prometto giusto qualche Wayne Shorter, e il resto mi concedono tutto. Sono entusiasta io, son entusiasti loro. Ci divertiamo un sacco.

Ecco.

Il concerto era in cornice meravigliosa, al faro di Jesolo. Il debutto ideale.
Saltato. Quattro giorni prima. Saltato, porca troia.

– vabbè fla, peccato. ma noi sabato proviamo lo stesso, no?

E io sento di amarli, i miei due compagni di merende.

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Uno spritz scialbo, e i tuoi occhi verdi a guardarmi. Il solito download di informazioni sulle nostre vite, noi fidanzati  a tempo perso, e come stai, e come risolvi. Mi hai detto: ma cazzo, perchè non provi anche te in comune? E’ la tua soluzione, il pomeriggio stai dietro al bimbo, suoni, fai i tuoi concerti e le tue lezioni, ma almeno hai un’entrata sicura.

Ho vinto la selezione, senza nemmeno sperarci. Ho iniziato dall’ultimo scalino, investito, dimostrato stakanovismo e affidabilità. Mi hanno preso, un po’ più su, nel girore infernale dei contratti a termine. Pensavo non finisse più.

Pensa che ho fatto pure le manifestazioni, le barricate. Con la polizia che ci spintonava, Cacciari che prometteva, lettere e proclami e riunioni, i sindacalisti, i ricorsi, e selezioni, e graduatorie. E farsi sfruttare senza dir niente, che non si sa mai, sei precaria, sempre a rischio. La guerra dei poveri, dove sei vicino di scrivania, ma sei pronto ad accoltellarti per un posto di lavoro fisso.
La finanziaria vecchia, che dà speranze, e quella nuova, che le toglie. A meno di non riuscire quest’ultima occasione.

Adesso ho la busta in mano.

Stabilizzata. Assunta. Fuori dal tunnel.
Un pezzo alla volta, come dicevi tu.

Peccato che sei morto. Sei la persona ideale con cui mi sarei ubriacata stasera.

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La bambina chiese ascolto.

Voleva raccontare com’era andata a scuola, com’era bello in film alla tv dei ragazzi, e che gioco aveva inventato con la sua compagna di banco.

Voleva mostrare il compito di italiano, col voto più alto di tutti, orgogliosa.

Voleva mostrare il ginocchio sbucciato, e anche se non piangeva più avrebbe voluto esser consolata lo stesso. Magari disinfettata, con poi un bel cerottone colorato, magari sentirsi una bella predica. Sentirsi raccomandare di stare più attenta.

Voleva chiedere cos’era meglio, se andare alla festa al patronato, o in parco con gli amici. E se quella maglietta azzurra era meglio di quella bianca.

Voleva ascolto. Perchè le sue piccole cose di bimba un giorno sarebbero diventati grandi problemi di donna, e di mamma.

La bambina si è ribellata. Ha pestato i pugni, cazzo ascoltami. Vuoi un gelato? Ti faccio un assegno?

Ma vaffanculo.