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Durante la pausa pranzo, io e Mario definiamo la digestione del pomeriggio valutando cosa ingurgitare al Plaza, nostro ristorante di fiducia. Solitamente decidiamo per una insalatina di riso, o straccettini di pollo e rucoletta, o bresaoluccia e grana, e acqua senza bollicina alcuna.

Poi ci strafoghiamo con tiramisù, panna cotta, gelato all’amaretto con Baley, o l’ultima invenzione del Mario: plumcake di farina di Kamut con gelato. Un mattone che si digerisce in due settimane circa.

Il ritorno all’ufficio, con gli scalini del sottopasso stranamente aumentati di cinque, è laborioso e ricolmo di sensi di colpa. E solitamente, mi giustifico con un "ma tanto siao belli lo stesso, su".

– …massi, non è l’immagine che conta, è il carattere.

– …si, anna, è come sei dentro. basta trovare uno che ti veda dentro.

-….mmm….

-….cosa?

– …dentro. E per dove mi vede, dentro?

Ho capito. Il mio uomo ideale è un dentista. O un ginecologo.

la verità sul mal di testa

la verità sul mal di testa

Ci sono problemi che un uomo non può capire.

Scadenze fondamentali, che regolano la vita di una donna. E non sono l’ici, l’affitto, le mestruazioni. Che come è noto, consentono pure la ruota, suvvia.

E’ la pillola. La pillola viene prescritta dal medico curante di due mesi in due mesi. E regolarmente, nella settimana di break tra una scatola e l’altra, il proprio medico ha un sostituto, che riceve nei giorni opposti al titolare. Sei senza ricetta, senza un amante farmacista accondiscendente, e con le vacanze fissate tra due settimane: catastrofe, per la non copertura contraccettiva, nonchè per lo sballamento di settimane "free" e "red". Perchè è sicuro, in quel mese li che ti tocca sospendere, trovi sicuro l’uomo della tua vita, o ti rimetti col fidanzato, o trombi ubriaca senza precauzioni con l’ex marito.

E’ calcolato, se prendi la pillola regolarmente, non rischi nulla. Nemmeno di trovare l’uomo della tua vita, rimetterti col fidanzato. Sul trombare con l’ex, non c’è verso, l’alcool non farebbe abbastanza effetto.

Poi… la depilazione. Perchè è certo, prendi la pillola, non è la settimana in cui convivi con l’ob in tasca, ma sicuro, la giornata giusta coincide con le ferie dell’estetista, la ricrescita della ceretta, il corto circuito del silkepil. Un’irta copertina sulle gambe che se vai in gommone al mare, lo buchi. E lui che ti chiede "ti fermi da me stanotte?"…

E la ricrescita? Colore o meches, si ha di autonomia un mese, quaranta giorni per le più fortunate. Se si ha uno specchio nel bagno dell’ufficio un po’ troppo alto, giusto ad infierire sull’ombra del capello naturale, a volte con filini di bianco, che di principio sta ad affossare ogni tipo di pettinatura, beh… ne ho viste, uscire in lacrime. Perchè ci si accorge della tragedia il sabato. E bisogna chiudersi in casa fino al martedì, che di lunedì il parrucchiere è chiuso. Sono bastardi i parrucchieri.

E lo smalto? Adesso c’è la french manicure da programmare. Ma se non si è fortunate…. lo smalto si rovina giusto quel giorno li, in cui lui ti invita fuori. E tipico, lo smalto messo alla sera sembra spettacolare, al mattino dopo hai le mani da macellaia, rosso-arrostodimaiale.  Molti ritardi mattinieri al lavoro son dovuti alla manicure d’urgenza.

Ecco. Noi donne abbiamo un sacco di cose da pensare, programmare, incastrare tra i vari impegni. Non è facile essere donna, in questo mondo consumistico di perfezione estetica.

Per questo, uomini, ogni tanto vi diamo buca col mal di testa. Siamo bellissime, ma mica sempre…

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Passion

Ho pensato che il blues di Tom Waits che usciva dalla mia macchina si intonava perfettamente a quel trancio di montagne. L’aria calda che ammorbidiva i pensieri, il verde che mi soffocava l’ansia, la voglia di spingere l’accelleratore su per quei tornanti. Forzatamente viva.

Che ogni tanto bisogna dir basta, e sforzarsi d’esser felici, al limite dell’isteria.

Salire sulla tua scrivania, mentre tu parli, parli, parli troppo. Scendere sulle tue ginocchia, lasciando che la gonna si arrotoli su, arrampicandosi sopra le nostre voglie, in cerca di strapparti con le labbra la tua stoica ritrosia a lasciarti andare. Perchè non ne ho voglia, di stare a sedurci, voglio aggrapparmi alle tue spalle e riempire le mani con ogni centimetro della tua pelle.
Poter mangiarti, come fossi crema avvelenata, poter berti, come fossi assenzio, averti, ogni giorno, dentro di me. Dentro. E morirne, in overdose di te.

Che ci son corpi che si appartengono. Che si chiamano. Che scindono l’illogicità delle cose, dei sentimenti, dei legami, per mescolarsi senza ritegno, senza che la mente possa frenarci. In quel mescolio di volgarità dette mentre mi chiami ancora amore. Amore.

Che forse, e ancora, è questo.

 

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La calma di stelle disegnate pungendo il cielo, e l’afa intorno, come non fosse notte.

Il trucco spento dalla stanchezza, il vestito di un concerto estivo che stona, ora, con questo silenzio, e questo balcone solitario. Tutto dorme, e io sveglia a guardare i tetti, con la voglia di allungare la mano in cerca di qualcuno. Ma non è ora, non è tempo, non è ancora mattina.

Le orecchie rimbombano ancora di note euforiche, ritornelli cantati, woofer che tuonavano di bassi. I piedi son scesi dai tacchi, e fanno male di troppe danze sul palco, un male dolce, che ricorda ogni nota cantata. Ed esser svuotata, di troppe energie, di troppe note che tenevo in serbo per stasera, le idee, le melodie, tutto nella memoria breve, ormai legate a questa serata, e già scordate.

Una felicità malinconica, mista alle parole, alle facce, ai discorsi, al resoconto che stampa i commenti positivi su un foglio excel della mente. Traccio una linea, e cerchio in rosso quelli più importanti. Sospiro, soddisfatta, mentre soffoco l’autocritica che mi sale per la schiena, mai contenta sono.

Chiudo gli occhi, ritrovo scampoli delle luci, della maschera messa li sopra, della recita dello spettacolo, come se fossi convinta di quel che ero, come se sapessi dividermi tra li sopra e qui dentro.

Mi parte l’angoscia. Puntuale, a colmare il vuoto di energie e entusiasmo. E’ l’onda di ritorno, la malinconia dell’essere tornata "uguale agli altri", parentesi alla solitudine.

Ho bisogno di droga, droga, droga. Scavo nella mente, dove, dove ne ho ancora. Devo sentirla nelle vene, pompare nelle tempie, aumentare l’acido nel cuore, per farmi volare ancora.

E in un’angolo della mente eccola. Muovo la testa, batto il tallone sul due e sul quattro. Una melodia che nel silenzio suona  regina sopra le case. La sussurro con la stessa energia che ci metterei gridandola. Le note s’arrampicano sui tetti, giocano con le tegole e i camini, e mi abbracciano, mi cullano, mi fanno vibrare, ebbra di suoni, e una nota alla volta fa un’armonia intera.

E via andare, col prossimo.

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Insomma. Giulietta è di un bello che non si immagina.

Domina la stanza, adagiata sul vecchio reggichitarra che ho rinvenuto tra i resti dell’ex marito. Sta lì, con una eleganza mastodontica.

A me piace il mi. Sarà l’egocentrismo che mi domina, ma mi piace il mi. Sul maj o min vado a momenti. Quando son più criptica vado di mi7+.

In queste prime settimane di convivenza, l’ho abbracciata senza aver voglia di smettere, dopo le prime pennate (si dirà pennate anche se non uso il plettro?). Ho recuperato un po’ di tabelle con le tabulazioni, che a parte gli accordi da Azione Cattolica, ho solo ricordi grossolani e goffi. certo, lei mi aiuta. Vibra, scalda, lascia l’alone attorno, l’aurea. Mi maledico di non saperla suonare davvero come si deve.

Ieri, nano intento a risolvere un cruciverba, gatto (ah si, ho un nuovo gatto) che miagola quando il mi cantino trilla troppo, e flauta che…chitarra. Situazione paradossale.

Ho i polpastrelli della mano sinistra che mi fanno un male boia. Ed è bellissimo.

 

il rientro

il rientro

l’amante         – sei arrivata?
fla                     – si. fa un caldo boia. e devo portarmi tutte le valigie di sopra, tre piani di scale da sola…
l’amante         – già
fla                     – in certi casi maledico di non avere un uomo.
l’amante          – in certi casi son felice di non essere il tuo uomo….

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Vi voglio a tutti un gran bene, ma adesso mi sono rotta le balle.

Vado in ferie. Suppongo che la disintossicazione da web non funzionerà, sappiatelo. Ma ci si prova.

Tornerò abbronzata e bionda come le californiane. Ah si.

E se passate di qui, mettete le pattine, che ho messo la cera e voglio ritrovare tutto a posto.

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CalcioNelCulo

 

L’Italia deve battere la Francia. La Romania non Non deve battere l’Olanda.

Ma volendo possiamo pareggiare con la Francia, purché la Romania venga battuta dall’Olanda: in tal caso, Romania, Francia e Italia andrebbero a quota 2, visti gli scontri diretti a parità di punti (due pareggi, due punti) e anche per differenza reti (0 a testa ). Però c’è pure la differenza reti,  1 per Italia e Romania, 0 per la Francia. Quindi dovremmo semmai pareggiare da 1-1 in su (2-2, 3-3 ecc.). In caso di 0-0 tra Italia e Francia, i francesi sarebbero quarti ed eliminati e lascerebbe in parità Italia e Romania. Però la differenza reti tra le due è  Italia a -3 e Romania a quota 0. Basta insomma che la Romania perda con 4 gol sotto. Se ne prende 3, siamo fottuti.

Insomma, semplicissimo. Basta solo giocare bene e avere un po’ di culo.

 

Io lo dico. Per me perdiamo di brutto.

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La luce filtra tra le tapparelle, in questa notte immobile. Come i miei occhi, fissi sul soffitto.
L’apatia mi strozza dolcemente, quasi a volermi soffocare con affetto, mentre scivolo nel totale, assoluto, vuoto di sentimenti.

In congelatore, tra petti di pollo e zucchine congelate, ho trovato il mio cuore. Intatto, ben riparato da un cellophane aderente, praticamente nuovo, sembra. L’attack, dopo sette anni, ha aderito benissimo, non si vede quasi nulla, non si sente nemmeno il segno dei frantumi, passando con il polpastrello sulle ferite.

Se gli uomini fossero dei microonde, forse mi innamorerei.

Giro scalza per la casa buia, pregando la mia buona stella di non sfracellare gli alluci contro qualche angolo vigliacco. Che di notte, poi, non c’è niente da fare.
Decido di aprire l’Ipod. Tra la musica nelle orecchie, e silenzio fuori, vedo una tua foto. Addormentato in una spiaggia, di schiena, senza turbamenti, col tuo entusiasmo annoiato sparso sul mio asciugamano. Come qualcosa appartenuto ad altri mondi, ad un’altra me, che ho scordato, forse sotto le patatine surgelate.

Temo di averne ancora di amore, in qualche cassetto. Solo ricordassi quale, proverei a rinvasarlo.

Ricordo che da ragazzina mi innamoravo ogni due settimane. E mi piacevano tutti, e me li tenevo tutti, che nessuno aveva troppi difetti. Poi passi i trenta, inizi ad abituarti al frigorifero pieno di cianfrusaglie, e non senti più niente. Non piangi, non soffri, non senti lo stomaco rivoltato dalla gelosia, o dall’ansia di rivederlo.
Passano le settimane, e ti dimentichi che esiste, l’amore.

E apro il frigo. La luce esce e mi illumina mentre guardo senza davvero guardare. Seduta, fisso gli scaffali sentendo l’aria fredda che ne esce. Nemmeno vedessi i tarocchi dipinti sulle uova, il grana, il cartone del latte.

E sto li. Che, metti caso, riesco a congelare anche i pensieri.