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Il posto è bello, il viaggio piacevole.
Ma capacitarsi di dover passare una settimana di ferie a fianco alla pizzeria "ve la diamo calda" mi preoccupa alquanto.

Azzo.

Il ricordo, di tante, tante valigie fa.

Il ricordo, di tante, tante valigie fa.

Una maglietta sopra l’altra, i calzini arrotolati, la biancheria nel sacchetto di juta. Il beauty essenziale, la spazzola, il phon. E i cd, la fotocamera, il telefono.

Un sospiro d’ansia.

Poi lui, a riempirle il resto della valigia con un po’ di tutto. E la maglietta non stirata, ma tanto in valigia vedrai che si raddrizza da sola. Mah.

Una valigia in due. Le cose l’una in quella dell’altro, e lo spazzolino infilato tra i suoi ombretti. Però non è che mi va tanto di dargli spazio, si dice.

Carica la macchina, sali, mo’ si va. Dove?… boh, intanto andiamo. In…… in giù, direi, che c’è caldo. Un vento di incoscienza che le sbriciola i buoni propositi, e la voglia di abbandonarsi a quello scellerato amore. Un bambino sei, proprio un bambino.

Ah si. Bel casino, si ripete. E manco per caso le veniva in mente che mai come allora sarebbe stata, incoscientemente, e disordinatamente, felice.

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Giulia guarda il mare, e ci annega la testa. Si fa schiaffeggiare dalle onde, raggelare dalla temperatura ostile, trascinare senza volontà ovunque se la porti.
Giulia non si oppone, non si ricorda come si nuota, non sa fare nemmeno il morto.

Non pensa, guarda soltanto. La tempesta è solo li, che tutt’intorno è calmo. C’è un bambino con una paperella che gioca sulla bassa marea, due donne che camminano con l’acqua alle cosce per snellirsi  la figura,  e due mariti  con la panza che fuoriesce dall’elastico del costume, senza inibirli lontanamente. E dall’altra parte, il gruppetto di adolescenti, con i due che fanno i pirla, la bella, il ciccio.

Giulia guarda il mare, e si sente goccia tra le gocce. O forse, uno scoglio, che sta li lo stesso anche se l’acqua lo travolge e affoga.

Giulia esce dall’acqua, si asciuga con l’asciugamano ruvido, si sciacqua i pensieri neri di dosso. Si avvicina al chiosco dei gelati, e chiede uno stick. Il tizio la guarda storto, e lei precisa "un ghiacciolo alla menta".

Giulia compie settantanni, ma le sembra ieri.

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Insomma, andrei in ferie.
In ferie con un uomo che detesto.

Un uomo con un blog melenso. Con parole melense, amiche melense che gli scrivono sospiranti citando Neruda e Coehlo. Insomma, tutto ciò che più anti-flauta esista.

Ora. Che ci andrei a fare, mi chiedo?

Ah che ne so. Noia e masochismo penso.

O codardia.

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– …e c’era il papà di mio cugino

– Gabry…si chiama zio, eh, è tuo zio. Ti ricordi come si chiama tuo zio?

– …….

– Stefano, è lo zio Stefano!

– ma.. io quanti zii ho allora?

– beh, c’è mio fratello, tuo zio Francesco.

– ah, e poi?

– e poi i fratelli da parte di papà, Stefano e Patty, e la moglie di Stefano e il compagno di Patty…

– ah.

– …..A che pensi Gabry?

– … e dalla parte del postino quanti zii ho?

 

….Ecco. Mio figlio che fa humor a otto anni.

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Riaggiornò la posta.

La sua mail colorata, doppio click. E una frase. Una domanda, o meglio, una risposta a tutto quel discorso che si continuavano a fare via mail.

"Vuoi fare sesso con me?"

Un’accusa. Dopo l’amore, questo ci rimaneva, ammettere che la pelle chiamava ancora. E chiedersi se sfuggire, o abbandonarsi, e rischiare di innamorarsi, di nuovo, di noi.

E non sapere che risponderti.

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Non le reggo, non le reggo più.

Ho amato l’insegnamento, ho sacrificato volentieri tempo e energie per loro. Ho gioito per i loro successi, ho fatto mea culpa per i loro errori. Ho donato la mia amicizia e ho goduto della loro.

Ora prenderei un lanciafiamme, e partendo dai capelli, li incenerirei tutti, dal primo all’ultimo. Zoooot, una fiammata, e puf, spariti. Ah, meraviglia.

Chiamano, in continuo. Un sms perchè non sanno a che ora, una mail perchè non trovano il testo, avvisano all’ultimo che non vengono a lezione, con scuse che vanno dal "son troppo stanca" al "ho preso sonno". Se arrivano, non studiano un beneamato. Non dico vocalizzi e arpeggi, almeno impararsi le parole, ascoltare in macchina i pezzi. Macchè. A lezione, impegno minimo, più proiettato al "fàmoce du’ risate". Un corso di karaoke insomma.

Zoooot. Fiammata alta due metri, e cenere da soffiare via.

Parlavo con uno di loro, il buon Andrea, sfogandomi. Dico, mi sfogo e poi mi passa. Macchè. Una non viene alla prova "m’ero scordata", l’altra dopo mesi di prove, e dopo aver coinvolto nei suoi pezzi mezza scuola, mi avvisa candida che "cavolo, quel giorno sono in germania".

No, certo, mica hanno colpa. Può succedere. Bizzarro accada a tutti contemporaneamente.

E’ la categoria, le cantanti, da eliminare. Sono svampite, intente al tipo di french manicure, più che allo studio. Egocentriche e con manie di protagonismo, sempre in competizione l’una con l’altra, a chi grida di più. Hanno anche lati positivi, ma al momento mi sfuggono.

Ecco. Zoooot. Un litro di benzina a testa, e via. Come vorrei.

 

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Speravo tanto fosse un’omonimia.

Zio e padre di due miei cari amici, nonchè percussionista di sfilata della banda di Caorle. Caduti dalla barca mentre andavano a pesca.

Sono legata alla città di mare per averci insegnato fino a due anni fa, e per suonare con la banda e con le mie ex allieve, per rivedere gli amici, per farci le cene di pesce insieme. E perchè è una cittadina così amena, tagliata fuori dalle grandi arterie di traffico, quasi isolata, eppure piena di mondo vacanziero. I ritmi delle stagioni turistiche, e la pesca per gli altri. Un mondo genuino, in cui tutti sanno di tutti. E la figlia del sindaco è stata mia allieva, la moglie mia amica, come il presidente del consiglio comunale, o il finanziere, o gli albergatori. Quell’aria di paesello intasato di volti sconosciuti d’estate, e colorato dai cittadini d’inverno.

Ho sempre amato e ammirato, come capita ad un "forèsto", quel clima d’altri tempi. E sono sempre stata lusingata di essere chiamata la maestra di musica , con rispetto e considerazione immeritati.

Questi due vecchi spegnersi così, tra le reti. 

 

Volevo scrivere queste due righe, anche se non ve ne potrà fregar di meno, comprendo.

troviamogli un nome

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E’ ormai nota la mia passione per gli elettroamici di casa e ufficio.
Dopo beatrice, l’odiata fotocopiatrice, matilde e berenice, rex e ivano, dopo l’ultimo arrivo di Martina, ora a voi il prossimo battesimo.

E’ arrivato lui.

Registrerà tutta la mia musica, d’ora in poi.
Ma prima di elogiarlo come si conviene, intanto che facciamo conoscenza, a voi l’onere di titolarlo.
La rima è gradita e necessaria, sappiatelo.

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E’ un groviglio allo stomaco. Parte al centro, sotto lo sterno, e preme. E i brividi, ti si infiamma il viso e si gela la schiena. Ti si ferma il battito del cuore, cerchi appigli invano mentre cadi in un pozzo di realtà.

E’ la gelosia, che ha un filo elettrico legato a tutto il resto. Alla mancanza, alla possessività, al redimere anche il peggior mentitore. Ti scardini le convinzioni, e daresti tutto per un istante, per riavere tutto per te.

Poi respiri a fondo. Decidi che è un insieme di casualità, il blues troppo lento, le parole che combinate insieme son troppo affilate, una solitudine che col tempo pesa esponenzialmente,  e che non bisogna, non bisogna cadere nelle trappole.

Ho smesso di sbattere i pugni sul tavolo, ho finito i discorsi e le analisi e i convincimenti. Ho perso la pazienza, l’ho ritrovata, l’ho sprecata. Mo’ sono a buon punto, e mi volto indietro. Perchè nulla come un caldo abbraccio della strada vecchia sa consolare chi si perde in quella nuova.

Però… avanti andare. Avanti. Prima o poi si arriverà pure ad una destinazione. Qualunque essa sia.