Inciampo’, da sopra quel tacco troppo alto e pungente, in quel canyon formato dallo scalino e la carreggiata sporca di polvere e vite di passaggio.
Inciampò per lo sgambetto dato dai suoi pensieri, che le aggrovigliavano i movimenti, ingrossando le caviglie ed appesantendole i passi. L’inerzia e l’inedia del corso della sua giornata, senza fermarsi un istante a smettere, smettere, smettere di pensare.
Inciampò. La mano ad accarezzare la caviglia, tentando beneficio da una coccola inutile,come se frizionandola le potesse scomparire il dolore delle sue scomode certezze.
Non riusciva a riappoggiarla a terra, a caricarla del peso del suo corpo, e delle sue responsabilità. Si appoggiò ad un palo, guardandosi intorno smarrita, alla ricerca di un punto dove potersi sedere un momento. Non c’è mai, quando lo cerchi, un posto dove poterti mettere in stand by un poco.
Ci provò, niente, il dolore era troppo forte, non riusciva a proseguire. La bellezza di quelle scarpe troppo alte, troppo belle per potersele godere, troppo perfette per alzarla sopra gli altri, dandole il ruolo che nemmeno da se’ sapeva meritarsi.
Si appoggiò sul bordo rialzato di una vetrina, impacciata nei jeans troppo stretti, forse per tenerla su come un’impalcatura. La sua immagine di ritorno, riflessa sul vetro del negozio. La sua immagine senza le sue certezze e sicurezze e protezioni, senza il suo ruolo. Lì, una semplice donna di quarantanni (ne ha di più, lo sa, ma vuole dimenticarseli), azzoppata dalla sua autostima, il viso scavato da troppi sorrisi perduti, le mani magre e troppo in ordine, gli occhi senza fondo. Cos’era diventata?… Ma figurati, scacciò la riflessione idiota, da filmetto di terz’ordine. Sono un dirigente, ho degli impegni, degli incarichi.
La caviglia pulsava. Cinque, sei anni prima (oddio, quand’era l’ultima volta che?) avrebbe chiamato lui, lamentandosi imbronciata. Lui che l’avrebbe presa in giro, per poi raccoglierla e curarla, come una bimba col ginocchio sbucciato, e alla fine avrebbe riso, perchè davvero i tacchi non le piacciono, non si corre, non si gioca coi tacchi, si fa troppa confusione per i corridoi, coi tacchi. Preferiva stare scalza, la mattina, con addosso la maglietta di lui, a ciondolare sulla sedia della cucina con la tazza di caffelatte, con sopra un po’ di cioccolato, e i biscotti, i biscotti intinti dentro, attenta a non immergerli troppo altrimenti si squagliano subito…. E i suoi capelli, spettinati dalle carezze e dall’amore, le sue guance ancora arrossate dall’imbarazzo del piacere, nascondendo lo sguardo per la lieve vergogna di aver, forse, perso il controllo delle parole e dei respiri. Il suo caldo abbraccio, forte, protettivo, imperturbabile, nel quale sentirsi al sicuro. Al sicuro. Senza il bisogno di doversi difendere da nulla.
Prese il Blackberry, chiamò la segretaria “mandami una macchina, ho avuto un contrattempo”, tornando con metà della mente al suo ruolo, e l’altra metà a pensare all’assurdo, del suo vecchio piccolo nokia coi tasti smarriti, e i pupazzetti che ciondolavano attaccati. Un’altra vita, altre scelte.
Voltò pagina, e proseguì.
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