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La vergogna

La vergogna

Quando impari ad amare i tuoi limiti, forse diventi grande.

E ti svegli capendo che quel qualcosa che ti manda in panico, è una scena che si ripete ciclicamente, che non sai affrontare, che non vuoi affrontare.

Come se non volessi apprezzare il poco che puoi dare.

Cosa vuoi davvero? Tutto?

Cosa vuoi essere? Tutto?

Dove vuoi arrivare? Prima di tutti? Prima degli altri? Davanti a tutti, in modo da sentirti dare credito, stima, fiducia, encomio, ammirazione.

Chissà se faresti a cambio, con tutto ciò che hai e non vedi. Chissà se preferiresti esser meno forte, tenace, brillante, bella. Chissà se rinunceresti ad amare, per sempre, solo per avere il primo posto, lì davanti.

Nella tua testa, non sei mai soddisfatta, non sei mai in cima, come se fosse importante essere in cima. In cima a che, poi. Li vedi, quelli in cima? Massì, li vedi, li conosci. E sono soli. Sono infelici. Tu li ami, ma loro vorrebbero essere te. Loro vorrebbero avere la vita piena di tutto, invece che di una cosa sola, una piccola cosa che capiscono solo in pochi, animali di razza in una mostra di periferia, bei gioielli che si vendono ormai a poco.

Chissà se scoprirai, una volta per tutte, di essere meravigliosa. Rinunciando alla tua maledetta, straziante, distruttiva, competizione.

Eppoi.

Eppoi.

Eppoi ci son giorni in cui ti chiedi perchè cazzo non molli tutto.

Perchè non ti prendi un anno sabbatico, e pensi solo a quello che ti va di fare.

Perchè hai tante cose che non riesci a finire, e le fai male, e poco, e non c’è tempo, e perdi tempo, e consumi tempo, e sprechi inutilmente tempo. Tempo.

Io vorrei alzarmi domattina, e fottermene del mondo. Recuperare le ore di sonno perdute, alzarmi con calma, bere un caffè. Uscire a comprarmi il giornale, anche se non mi frega di leggerlo. Vorrei solo uscire, mentre il mondo bestemmia nel traffico, e con tutta calma entrare in edicola, trasparente nello stress cittadino, in solitudine anche in mezzo al mondo.

Tornerei a casa, e farei come gli anni del diploma: lo sgabello davanti al leggio, e via andare.
Dopo un paio d’ore, spremuta, cicca, guardare dalla finestra, e poi su di nuovo.
Niente orologio, si studia finchè reggi. Ci si perde nei particolari, si prova a fare cose al di fuori di, si ragiona, si investe. Ecco. Sebbene ogni tanto mi chieda se l’investimento dei mille anni di studio sia mai fruttato.
E così pensando solo a quello, a costruire. A fare quello che so fare meglio.

Ma, porca troia, ho un lavoro, un figlio, l’insegnamento, una casa, le bollette, l’avvocato, il gastroenterologo. Amici che non vedo mai, un cavallo che sta al pascolo da anni, bei film che non ho mai il tempo di vedere, bei dischi che non ho tempo di ascoltare, e pacchi di musica che non riesco a suonare.

E allora, vaffanculo. Mollo tutto.
Mollo tutto.

(tutto perchè non son nemmeno riuscita a fare la spesa)

Fumo

Fumo

Teneva la cicca tra le dita, mentre si mordeva le unghie, seguendo la dubbia logica del filo di fumo. Pensava, decideva, desisteva, e di nuovo, daccapo.

Dal suo terrazzino nell’alba, i tetti addormentati, e il traliccio lontano, con i passeri in fila, a guardarla. E lei pensava alla passera, quella passera che dormiva di là, nel suo letto, irresponsabilmente dalla sua parte.

Avrebbe dovuto esserle grata, la sua brava bambina l’aveva fatta godere senza risparmiarsi, da disciplinata scolara, senza chiedere altro che rimanerle poi a fianco, abbracciata, addormentata, null’altro in cambio.

“sei peggio di un uomo, Giulia”

L’aveva lasciata lì, il suo corpo pallido a confondersi sotto il piumino e le labbra ancora piene di lei. Doveva uscirsene a prendere aria, a uccidersi le corde vocali malconce con la nicotina e il gelo.

Fumava piano, sentendo il tabacco bruciarle la lingua, profumarle i capelli. Un momento, sospesa nel niente, nell’indifferenza di quel mondo silenzioso, potendosi gridare dentro i pensieri senza essere disturbata.

La testa appagata e i sensi ancora ubriachi di sesso.

Spense la cicca sulla ringhiera, godette dell’ultimo istante di egoistica solitudine, e tornò in casa. Scivolando accanto alla sua dolce conquista, baciandola piano, senza svegliarla, e accarezzandole i capelli, docili e indifesi.

E fissando il soffitto, si chiese se forse poteva essere il momento giusto, per metter la testa a posto.

O anche no.

quelli come me

quelli come me

C’è un pianeta in cui vanno a finire i musicisti.

E’ enorme, per contenere tutto il loro ego. E’ colmo di fogli, musiche, strutture, e battute storpiate, con un unico soggetto: se stessi.

Non si ascoltano, troppo intenti a sentirsi parlare, a meno di non intercettare un feedback positivo, che avvalori il concetto che loro sono meglio di tutti. E quando lo intercettano, si sminuiscono, i bastardi, tentando una malandata immodestia.

Amano l’amore, scopano l’immagine di se’ che si rispecchia nell’altro, sotto di loro, e  scelgono il partner in base al tipo di tappezzeria. Si innamorano del benessere che provano, soffrono di default ogni sei ore. Perchè soffrire, ed esser depressi, è un must, ordinato dal medico quotidianamente, a dosaggio variabile. Cura intensiva fuori dal palco, subito dopo, che la curva discendente è implacabile.

Del mondo sanno poco, non guardano la tv, la tv è il male, come tutto ciò che non è difficile. Leggono libri incongruenti e si perdono in teorie fallibili, mangiano nutrizionalmente zen, per immagine di mercato. Hanno le piantine aromatiche sul balcone, e ricettari di ricette etniche, accanto al cartone della pizza del giorno prima.

E non ti ameranno mai, troppo intenti ad amarsi da se’. O forse, lo faranno, dieci minuti, ebbri di gratitudine. E poi guarderanno oltre, al chorus successivo, ed altra battaglia per avere il solo, e tante cose da dire. Fedifraghi di note.

Che persone orrende, son quelli come me.

woman in chains

woman in chains

Il telefono in mano, in silenzio, e lui dall’altra parte, il caos del traffico in sottofondo, e nessuna parola. O mille parole, quelle che non potevano dirsi.

Silenzio, ma è pur sempre qualcosa, sei ancora dall’altra parte almeno, abbiamo un legame ancora, e domande per aria, e angoscia, quella che ti entra dentro, a far sanguinare i sogni distrutti. Domande a cui mai si darà risposta.

E lacrime, a scendere vigliacche, scalfendo la sua fiducia nel “tutto tornerà a posto, basta aspettare”. Ignorando che troppe cose si erano rotte, che la più grande ferita della sua stramaledetta anima non si sarebbe aggiustata mai.

Ma stai scherzando. Non puoi farlo. Hai smesso di amarmi?… hai smesso. Nemmeno fosse un interruttore che si gira, ieri ti amavo oggi no. E io? Non lo so. Intanto ritorna a casa, poi vediamo. (Non funziona così).

E mesi in cui ti laceri. In cui non capisci, ti dai colpe, ti fai del male, ti fai fare del male. Non ce la fai a rinunciare, ti pensi codarda a cedere, cedere è rimaner sconfitti, non vuoi mollare la cima a cui è legato il tuo mondo, mentre il mondo è già affondato.

Nessuno sa che è quello, quello il giorno in cui sei morta.  Quel cazzo di giorno che non te lo scordi, non passa, sta lì zitto e buono, ma poi torna, e ti ammazza di nuovo, e di nuovo, e ti uccide la voglia di ricominciare, di credere, di fidarti. Di amare di nuovo.

Ti odierò tutta la vita. Tutta la vita.

Drum’n’Bass

Drum’n’Bass

Si alzò stanca di dormire. Stanca della luce, stanca di rimanere ferma, stanca del silenzio, stanca di vestirsi, stanca di essere lucida.

Scivolò in cucina, vestita solo di un maglione troppo grande, e cercando la musica versandosi un bicchiere di rosso, in un bel calice ampio, e cercò il ritmo, facendo ondeggiare il vino, largo, tondo. Attaccò le cuffiette dell’ipod, con quella musica troppo forte e con troppi bassi, a farle premere il ventre, a scuoterle il sangue, a svegliarle le voglie.

Al buio, il calore del vino ad intorpidirle i movimenti, iniziò a ballare. Gli occhi chiusi, i capelli sul volto, piano, ondeggiava i fianchi, girava indietro la testa, ed alzava il volume. E un altro sorso, e si muoveva più forte, e sentiva quegli ottavi ottusi a scuoterle le spalle, girando la testa, scuotendo i pensieri, ed aggrovigliando le voglie. Musica, suono, rumore, la cassa a batterle il petto, la mente drogata di loop ininterrotti, e una semplice melodia ad incatenarla al volume, alza il volume, alza, alza, e balla sopra il tappeto, i capelli sugli occhi, gli occhi chiusi, chiusi, perde quasi l’equilibrio, un altro goccio di vino, e ha caldo, si appoggia sul tavolo.

Ed ancora gli occhi chiusi, gli auricolari e la sua musica a portarla altrove.

Le cinse i fianchi senza spaventarla, senza distoglierla dalla sua danza, e le baciò il collo, piano, senza interromperla, senza impegnarle le labbra, socchiuse a respirare l’ebrezza. E piano la alzò sul tavolo della cucina, per far l’amore con lei. Senza svegliarla, piano, che la musica è troppo forte, e vuole seguire il tempo, la cassa a spingerlo dentro di lei, seguendola nei movimenti, fondendosi con lei, la sua musica, troppo forte, e il suo respiro. Un respiro che giocava con quegli ottavi, i suoi gemiti che coloravano le melodie, e la passione le ovattava i suoni, le girava la testa, senza che la musica volesse finire, senza che volesse che lui si fermasse, fino a scoppiarle dentro, l’estasi. Ad occhi chiusi, nella sua musica.

Immobile.

la verginità dell’anima

la verginità dell’anima

– Va’ che quando fai così mi fai paura.

Giulia mi guarda, tra l’offeso e il bastonato. Stellina, lei ci crede nella sua teoria. Vuole convincermi, per poi convincere se stessa.

E’ insoddisfatta, assetata di cambiamenti, di scariche di elettrica adrenalina, come se non ne avesse mai abbastanza. E’ drogata, drogata di follie, di pensieri contorti, di teorie posticce, di obiettivi labili e malsani.
E non le manca nulla, penso sempre, ed invidio l’incedere spavaldo, le idee assurde, e la corazza che la difende dai giudizi altrui. Le corazze, già. Quelle belle facce distorte dietro cui difendersi, quell’impalcatura fitta fitta posta lì a porci nel modo in cui non ci piacerebbe essere, per rimbalzare le persone che non ci interessano.

Rimbalza, rimbalza Giulia. Talmente bene che non lo so nemmeno io com’è. La brava ragazza (ma esiste una vera brava ragazza?) che mi spaventa, nei pensieri, nelle supposizioni, Giulia potrebbe fare del male, Giulia potrebbe uccidere a mani nude, Giulia potrebbe piangere lacrime per amore, spingere una vecchietta sotto il treno, adottare un cane, dare in beneficenza il suo stipendio, e farsi un tiro di coca.

– …sbagliando tutto, è il metodo che va rivisto, ..ma mi ascolti?

Ha smesso di trombare. Ha detto letteralmente così. E’ seduta nella mia cucina, un thè dalla fragranza tanto esotica quanto improbabile, e la sua dichiarazione di indipendenza dal sesso. Sono basita.
Lei parla, e io fatico a starle dietro, come se stesse spiegandomi fisica quantistica per metafore. Mi ripete che vuole parlarci, vuole conoscerli, vuole ripulire il corpo da orgasmi inutili (inutili) per mettersi in gioco l’anima. L’anima, in gioco.

Gioca con la bustina di thè, immergendola ritmicamente, come fosse metafora di altri ritmici movimenti di immersione.

Non capisco, ma che vuoi fare? Smettere di scopare, come fosse una dieta, per cercare cosa, di prenderti una sbandata seria, per vedere se riesci ad innamorarti prima di andarci a letto?.. Mi domando, mi rispondo da sola. Con gli amici con cui parla, lei non scopa. Dice che poi non potrebbe più parlarci, che si rovina tutto, si crea il click del dominio, come se donandogli una notte li autorizzasse a considerarla di meno. Considerarla, rispettarla, o forse pretendere spazio (non c’è spazio, non c’è aria, apri le finestre) e attenzioni. Ti strozzi il collo portando una camicia sbagliata. Allora smetti di metter camicie e giri nuda, soffri il freddo ma provi a cambiare la tua immagine. Come ti vedranno gli altri, senza una qualsiasi camicia, senza il collo stretto, cercando l’aria.

– …insomma, mi mantengo vergine, una verginità interiore, come a ripulirsi.

Ci penso. Glielo dico.

– …per me è una stronzata.

Giulia si avvicina, il suo sguardo a dirmi che ho ragione, che è in fondo debole, che non può smettere di far casini perchè è quel goccio di vita dissoluta che può ancora permettersi.

Si avvicina, mi rapisce lo sguardo. Mi bacia.
Tiene il mio viso tra le mani, mi morde le labbra dolcemente, mi stordisce.

Io annego tra le sue labbra, non so privarmene, non voglio finisca quell’istante. Non voglio smettere di sentire le sue mani, e le sue labbra. Labbra. Labbra.

Prende la borsa, mi saluta con lo sguardo complice, come nulla fosse.
Io lì, confusa, a lasciarla andare, la mia meravigliosa, cattiva ragazza.

gli istinti

gli istinti

Appoggio il mio surf metaforico, dopo averle passate, queste ondate di malinconia, rabbia, insofferenza, di giorni inquieti di gennaio. La macchina parcheggiata lungo la strada, si addormenta per qualche ora, anche lei, per poi riprendere a portarmi in giro per la giostra di un frenetico quotidiano.

Mi fermo. Mi fermo? Che dovrei pensarci.

Non è da me. Non è da me dire di no. Non a un certo tipo di occasioni.

Dovrei pensarci, sto cambiando. Ma appena cerco di compiacermi  di esser diventata grande, mi assale il rimorso. Puro, semplice, concreto e venale rimorso. Provandoci, ad essere una brava ragazza.

E addormentandomi a forza nel letto, ripetendomi il mantra delle mie priorità, assieme ad un mucchio di motivazioni utilissime per la rubrica del cuore di una rivista demodè, o di chiacchiere corrette e virtuose delle mamme della mia età, tento di placare anche il corpo. A star fermo. A non imprecare. A non chiedere udienza.

Dov’è il giusto, dov’è l’errore? L’istinto, ragione, la logica, il pragmatismo, la saggezza dei miei anni.

E gli istinti, gli stessi di quando avevo vent’anni.

Suona piano

Suona piano

T’è andata male.

T’ho illuso, facendoti scegliere da Paolo, ‘che ci speravi di capitare sotto le sue dita. Macchè.

E ti dirò, gironzolare per il fantomatico lunapark per musicisti, saltando non senza rimorso il giro di prova piatti al pian di sopra, come falsi batteristi, mi è proprio piaciuto. Mi è pure piaciuto portarti qua sopra, al pianoalto dove abito, te e miseri 12 chili, bambino mio, leggero e leggiadro.

Ti ho cacciato qui in fianco alla scrivania. Ti ho dato in pasto alla fatidica prova dei triliardi di suoni, effetti, chorus e altre scemate che dimenticherò ben presto, per relegarti nel ruolo non edificante di “pianoforte digitale, e basta”.

Ah lo so. Sono un cane. Ma dovresti sentirmi sulla Valeria, la mia povera Yamaha acustica, che s’impegna a segarmi i polpastrelli pur di farmi smettere in fretta di suonare. Ma che vuoi farci. Suono il flauto, io. Il resto è contorno.

Comunque, fattelo dire, ci stai dentro, ragazzo, sei perfetto qui, hai pure un suono convincente. Ed hai un sacco di tasti, io che mi ero abituata alle 5 ottave, mo’ ne ho triliardi dove potermi sbizzarrire.

Che posso dirti. Benvenuto.

Ah giusto… il nome. Ostia. Beh, sei uomo, infondo. Ti spiace se, per non confondermi troppo, ti chiamo… tesoro?…..

quando la musica ti riesce bene.

quando la musica ti riesce bene.

E il cuore mi sboccia.

Si apre colmo di gioia immensa, per un granello di impegno impiantato del passato, che oggi fiorisce.

E io dondolo la testa, mi lascio abbracciare dalle emozioni calde di felicità pura, semplice, onesta. L’orecchio appagato dalle frequenze esatte, dagli intervalli che si baciano, delicati, senza disturbarsi.

E stento a credere, di essere capace di farmi scivolare di dosso la mascolinità dei miei gesti, come se il mio strumento tradisse il mio animo da uomo di casa, e una dolcezza che non ho mai voluto concedere ne uscisse fuori, come carezze ad un fiore, come il soffio sugli occhi di un bimbo che sogna, come un animo che raccoglie i dettagli di un dolce ricordo.

E il caldo romanticismo senza volti o nomi o legami, solo la delicata brezza dell’emozione, senza motivi, senza fini, a cullarmi i pensieri.

E mi sento brava, e giusta, e perfetta, …. appagata.

Felice.