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La divisa.

La divisa.

Con sgomento mi accorgo che il mio look total black è stato notato dalla procura di Bari.

Dopo una perquisizione del mio guardaroba, è stata notata la maggioranza di vestitini neri, corti. Poi, perquisizione del beauty-case, e la mancanza di tonalità shock è stata una condanna. Si son voltati e fissandomi, hanno sentenziato:

– la flauta… ha la divisa.

tanti saluti.

tanti saluti.

Me ne vado in ferie.
Faccio valigie, prendo aerei, vado in un luogo senza contatto col mondo bruto e cativo.
Il momento critico è stato domenica. Ho sognato Frattini.

Bon, vi lascio tutti bravi bravi, eh. Bagnatemi le piante, e non fare come l’artr’anno che mi avete spompato la menta sul balcone, per farvi il Moijto.

Ecco.

E ve lo dico. I social network non mi mancheranno ma manco pal tubo, eh.

La vita vera è la fuori. Eh.

(ehm, ci si prova, ecco).

Si ringrazia Nereo, per le fondamentali dritte. Mo’ vi saprò dire se a Creta tutti fanno i vasi come su Ghost. A mi me sa che no.

Baci, eh.

outing estivo

outing estivo

In sostanza. 

Ho preso una decisione, un anno fa. L’ho perpetrata, ed ho scelto la strada.

L’è stata dura, eh. Avevo dei particolari personal trainer, che ad ogni cedimento mi sostenevano (o insultavano, che anche quello serve). 

Per un tratto di strada nuova (Strada Nuova, appunto..) ho condiviso il passo con qualcuno. Mo’ si è fermato a vedere una vetrina, e io sono andata avanti, e… non ci siamo aspettati.

In sostanza, sono in mezzo alla strada di questa mia vita, senza più alibi: son sola soletta. Decisamente, non posso negarlo, per scelta. L’ho capito (come se non me l’avessero detto da anni, i miei trainer) impacchettando le ultime cose, freudianamente dimenticate, nella mia casa da moglie. E’ impressionante il numero di bigliettini idioti (datati 96-2001, eh) che si possa scrivere quando si è innamorati.

E’ impressionante ancor più accorgersi che, vacca boia, eravamo la coppietta perfetta. Minchia, m’era sfuggita sta cosa. 
A parte l’epilogo (la guerra dei roses ci fa na pippa), è stato il matrimonio perfetto. Pucci pucci tutto il tempo.

Okay. Ora è chiaro il perchè degli alibi.

 

Ma in sostanza, questo outing, perchè?

Beh, oggi ero in piscina.
Mio figlio inizia a mollarmi per andare a giocare tutto il tempo con gli amici. A parte il chiedermi spiccioli per il gelato. Solitamente gioca con figli di papà separati, tipi che passano il tempo tirandosi dentro la pancia, mandando sms ogni sei secondi (mi ricorda…mmmm…) e con degli slippini che ne esaltano l’assenza di contenuti.

E io leggo. Leggo “apprendimento, perfezionamento musicale e performance”. Ascolto Monk. E sto in atteggiamenti propizi al relax, senza un minimo di postura sexy. Sono un disastro.

Non ce la faccio, non ci son portata. 

No dico, volevo fare outing. Perchè se uno metti che mi incontra, si senta subito a suo agio. Beviamoci una birra, raccontiamocela. Ma non fate progetti, ormai non ci son speranze. Sono tornata zitella  vergine.
Non provateci. Non serve.  

E soprattutto. Non mettetevi gli slippini in piscina. Fondamentale.

capace

capace

E chiedersi se si è davvero capaci.

Crollare nello sconforto, veder discendere la propria fiducia senza potersi riprendere. Crogiolarsi nella paura di non farcela, cercando conforto, conferme, opinioni, parole qualsiasi da plasmare a nostro piacimento, a seconda del bisogno. Interpretare tutto, vedendo ieri solo il bene, oggi solo il male, domani chissà. 

Come a chiedere mille volte “dimmi che mi ami”, come se la risposta fosse affidabile.

A volte vorrei chiederti, amore mio, di dirmi che sono la più brava, che ce la farò anche questa volta. Vorrei uno dei tuoi consigli, saggi, quieti, rassicuranti, e sciogliere le mie infantili paure in un abbraccio, come una bambina spaventata dal temporale. 

Com’è normale che sia.

Se solo ti avessi mai incontrato.

ci son momenti che.

ci son momenti che.

che hai molte cose da fare. tante, distanziate da pochi istanti di break l’una dall’altra
e che fai? (che faccio?)
vengo colta da una bieca immobilità, che mi porta a perder tempo a guardar la tv, chiacchierare con un collega, cazzeggiare su facebook. perdendo tempo.

sto cercando un antidoto, da anni.

per ora rinuncio a reagire, mi adagio nel perderlo, quel tempo. perchè se lo perdo, vuol dire che ne ho tantissimo, indi perchè preoccuparsene?

tutto ciò per dire, non ho voglia di metter la maiuscola all’inizio delle frasi. non ho mica tempo oggi.

io ho le mie cose (preferite)

io ho le mie cose (preferite)

Venerdì 22 e sabato 23 maggio mi hanno chiesto di partecipare a due concerti, a Scorzè (VE), sul palco del teatro Elios.

 

E cosa suoniamo? ho chiesto io.

Te mica suoni. Te scrivi. 

 

La flauta on stage, con inediti scritti per l’occasione, tema “le mie cose preferite” (my favoritìngs), letti per il ludibrio del pubblico. Con gli amici musicisti (ecco, e mo’ io cosa sarei adesso?) a suonare.

Ventanni di conservatorio. E guarda te come va a finire.

La temperamatitologa

La temperamatitologa

La giornata è ideale per andare per Venezia: diluvia, il motoscafo è stracolmo, xe umido, tremendamente umido. Invisibile, mi incastro nella processione pendolaristica verso Rialto, isolata dall’universo da musica improbabilmente jazz nelle orecchie, e un certo senso di sgomento nel pensare a che genere di discorsi mi si prospetteranno di lì a pochi minuti.

LUI mi aveva chiamato solo il giorno prima “DOBBIAMO PARLARE”. 

Ah, ma son preparata. Non vado mica a dirgli gli ovvii motivi, sarò profescionàl, gli dirò…. voglio ampliare la mia esperienza lavorativa, progredire, acquisire nuove competenze, ….e fondamentalmente imbucarmi in un ufficietto dove non farei un cazz prendendo l’identico stipendio misero che prendo ora che mi faccio il mazz…. ehm. Dicevo. 

Nuove competenze, ampliare gli orizzonti, inserirmi in un nuovo ambiente, alla ricerca di nuovi stimoli. Suvvia, son una musicante, che diamine ci faccio a far conti…. perdincibacco Direttore, mi lasci andare per la mia strada. Lasci spiegare le mie ali professionali verso nuovi lidi, amplifichi la mia sete di nuove esperienze, lasci rinnovare il mio entusiasmo con nuove situazioni, conceda la mia professionalità affinchè possa portare ovunque ciò che mi ha arricchito dentro in questi anni.

In sostanza. Voglio il trasferimento. 

 

Entro. So cosa dire, so cosa dire. 

Lui mi fissa sornione. Faccio il mio discorso, con toni informali come mi è cordialmente richiesto. Progredire, orizzonti lavorativi, esigenze professionali, crescita delle competenze. Quanto so’ figa quando faccio sti monologhi. Mi sto convincendo da sola. Lui mi ascolta, paziente, attento. 

Finisco. Sono stata chiara, esplicita, grandiosa. Potrei andare in politica di corsa. Sicuramente in sindacato, almeno. Sorrido. Non può sfuggirmi. E già vedo lo scatolone (che lo fan vedere sempre nei telefilm, lo scatolone con dentro fotografie, pinzatrice ed ammenicoli, e si lascia la scrivania per sempre…), vedo Mario abbandonato al suo destino, un po’ di malinconia subito soffocata dall’orgoglio. E nuovi colleghi, mansioni diverse, nuovo servizio, nuovo numero di telefono. E finalmente, addio scadenze, addio pubblico, addio smaciullanti professionisti, addio stress assurdo a costo di stipendio da impiegatina. Farò l’usciera. L’autista. L’addetta alle fotocopie. La temperamatitologa. Qualsiasi cosa. Si. La mia vita finalmente avrà una svolta.

Lui mi guarda. Mi sorride. E dice due lettere. Secche. Sorridendo. 

No.

Senza eco. Senza riverbero. Manco un effettino. Semplice semplice.

No. 
Sottotitolo: manco per il cazzo, tesoro.

Mi dà due baci, straccia la richiesta di trasferimento, e mi augura buon lavoro. 

Mi stima, il mio Direttore. Non mi vuole mandare via. Eh si. Son indispensabile, fondamentale. Un mito. 
Non oso ribattere. Lo saluto, ringrazio, e torno in ufficio.

Ora so perfettamente cosa vuol dire. 

Becca, e contenta.

cosa voglio fare da grande

cosa voglio fare da grande

Mio figlio vuole fare 5 cose, da grande.

Il musicista, e su questo mi prendo ogni responsabilità.

Lo storico, colpa temo di Alberto Angela.

Il musicologo, colpa mia che l’ho portato ad una conferenza su Charles Mingus (l’ho complessato?).

Il cucinatore di hamburger.

Il cucinatore, ma stavolta col modello commerciale della piadina romagnola, di cotolette di pollo impanate.

 

Dovrei tentare un’analisi psicologica, ma mi sono inibita.

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Il treno schizza indietro stazioni, un tutto continuo di cose che scivolano in avanzamento veloce.

Solo mezz’ora fa infilava gli orecchini guardandolo mentre ancora dormiva, ancora una volta andava via prima, scivolando su strade o rotaie, per tornare alla sua vita. Un refrain continuo, il non aver spazio per coltivare uno straccio di sentimenti. 

Un barista inopportuno le aveva tessuto le proprietà gustose di una serie bizzarra di brioche, insistendo per farle scegliere anche tra sei tipi zucchero per il caffè. Io non scelgo, io prendo quel che capita, e lascio ciò che va.

“Ti lascio al tuo amore”, le aveva scritto, col solito cattivo sarcasmo, mentre arrivava a Milano, mentre rimbambita da sentimenti che non sapeva decifrare, e pensieri che non voleva sbrigliare, si immergeva nella metro in mezzo a facce da blogger affaccendati. Non è il momento per prender decisioni, si ripeteva, controllando di non aver lasciato per errore acceso, anche in stand by, il cuore.

Siamo soli, e semmai ci si fa compagnia. Oppure, ci sono cose più importanti. Eppoi, non ho tempo. Ah si, non ho tempo. 

Impacchettò un brivido di tristezza, come un cagnolino perso tra la folla, e riprese le redini della giornata, indossando il suo umore migliore. Una musica meravigliosa l’avrebbe abbracciata tutta la notte.