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non voltarti

non voltarti

Non guardarti più indietro, Giulia. 

Non ascoltarlo, non tornare sulle decisioni, non tornare indietro.

Seduta davanti ad uno scampolo di mare, una musica troppo bella attorno, ad accarezzare l’anima tormentata dalle tue violenze, dal non saperti perdonare, ecco, ora fai largo dei dolori, cancella, resetta il tuo passato, il tuo presente.

Giochi con la sabbia, e pensi ad una notte, sei entrata in acqua coi vestiti addosso, in un atto di pazzia, di disperazione, di forzata emozione. Quelle stramaledette emozioni, che se troppo labili, troppo deboli, troppo inutili, dovevi amplificarle. Troppo sazia di emozioni, Giulia.

Il suo non era amare, era stracciarsi il cuore in mille pezzi. La sua monotonia andava uccisa con qualcosa, qualcosa di cercato ovunque, un motivo per provare qualcosa di forte, di negativo, di straziante. In mezzo alla nuvola più dolce, avrebbe trovato il fiele, acre e distruttivo.

Giulia, perchè non vuoi esser felice? Che ti manca, che continui a cercare?
Non riesce, Giulia, a fidarsi. Giulia scava, e trova. E più scava, più trova, più perde. Perde se’ stessa, perde l’amore, la fiducia. Perde il sonno, nella mente sempre dubbi, sospetti, rabbia, orgoglio.

Seduta davanti ad uno scampolo di mare, quella musica bussa più forte, chiedendole di accettarla, di sopportare una carezza fatta per il suo bene.

Un passo dopo l’altro, Giulia, con calma. Non guardarti indietro, un respiro, e tutto passa.

L’elemosina

L’elemosina

La “mia” parrocchia è quella dei miei, della mia infanzia, dove mio figlio fa’ catechismo, dove mio padre fa’ l’accolito. Insomma, a un po’ da casa mia, in un altro quartiere.

Una chiesa moderna, con un parroco gajardo, che è venuto fin a Oderzo a sposarmi (in moto, un Guzzi spettacolare), mi ha poi sostenuta durante la turbolenta separazione (dandomi ragione, te pensa), senza considerarmi “immonda” e facendomi leggere le letture alla messa d’anniversario di matrimonio dei miei, come dei miei amici. Io, che proprio praticante non sono, forse grazie a questo obsoleto parroco riesco a riappacificarmi con Dio, ogni tanto.

A pasqua, Gabry ha insistito ch’io facessi la comunione. Quando ormai la fila era finita, il Don mi ha aspettato fermo davanti all’altare. Ammetto, mi son commossa, sembrava proprio che…. vabbè.

Stamane ho qui una DIA, per alcuni lavori alle vetrate, devo preparare l’integrazione di pagamento, e imporre alla “mia” parrocchia di pagare entro trenta giorni la parte di diritti non pagati. Una routine, capita spesso da quando han cambiato gli oneri.
Ma penso al mio nano, che ha messo un euro per la candelina, e 5 nelle offerte. E penso che questi andranno al comune, e di seguito, nel mio stipendio.

Ci pensavo, ecco, tutto torna. Alla fine.
Tutto qua.

Tragedia

Tragedia

Oggi è successa una tragedia.

Lo si sapeva, era stato annunciato da giorni.

Oggi è successo.

Una tragedia diffusa in tempo reale dai socianetvuorc. Subito, subitissimo, tutto il mondo solidale a discutere, con terrore, di quest’improvvisa, immane tragedia.

E’ cambiata la home di Friendfeed.

Pensate, fino a mezzora fa si discuteva ancora di (mmmm, cos’era?) ah si, il terremoto in Abruzzo. Anzi no, si discuteva se si doveva donare il sangue anche se non ce n’era più bisogno.

Mo’ basta, dicevamo, allora, la home di Friendfeed: vi piace? Vi trovate meglio o preferivate quella di prima del terremoto (del template)?

 

(Se preferite apriamo un gruppo su facebook, assieme a quello su “son solidale con l’aBBruzzo)

cio’ che di buono e’ rimasto

cio’ che di buono e’ rimasto

Ogni tanto ci si guarda indietro, giusto o sbagliato che sia.
Pian piano tutto si sfoca, non distingui piu’ i lineamenti del passato.
Pero’ io le tue carezze le sento addosso, come sempre.
Senza se, senza ma, tengo quel che di buono ci e’ rimasto, e mi ci gongolo sopra vedendone solo i colori belli.
E spengo, che ormai le batterie son finite, il nastro che contiene le accuse, le gelosie, le vendette, le … cazzate. Tengo le cose belle, le cose magiche, quelle su cui non so trovar dubbi.
Per giorni dimentico, poi torni, a caso, nelle mie cose. E sorrido, dopo anni ora so sorriderne. Di quell’amore per cui non potro’ mai ringraziarti abbastanza.
Forse un giorno, pensa un po’, ti chiedero’ scusa.
Ciò che tu sei

Ciò che tu sei

Tacchi che suonano in una calle addormentata, bagnata un po’ dall’acqua alta. Sguazzo nei miei pensieri, anche a notte fonda, in apnea prolungata sotto il livello della coscienza. Rielaboro, organizzo, lavoro. In continuazione, le mie rotelle girano, trasportano, incasellano, e ancor più al ritmo dei miei passi, sempre questi tacchi, a svegliare la polvere della fondamenta, disturbandomi la laguna. Pure la laguna, adesso, dorme. E io invece ragiono, ragiono, ragiono….

Ho fatto tardi, mi ha aspettato sveglio. Scarico borsa e flauto sulla sedia, ancora nella gig dei miei discorsi, fino a fermarmi, rallentare. Che pace c’è qui. La musica, l’aria, le poche cose nel disordine di chi non abita troppo spesso. Che pace. La respiro, la godo.

E mi addormento nell’abbraccio, un sonno senza sogni, senza cose in sospeso da risolvere.  Tutto qui.

Io lavoro, e.

Io lavoro, e.

lago-carezza

Prese il caffè caldo tra le mani, nuovamente al lavoro, in un lunedì solito. Le azioni d’abitudine, le sue cose sulla scrivania, e un insolito silenzio, tale da gettarla dentro di se’, immersa nelle sue negazioni, contraddizioni, sentimenti in default, e parole semplici da dire, giustificazioni ovvie per tagliar corto.

Sbigottita, si ritrovò tra le mani un pensiero vanamente soffocato. E si accorse che era intatto, lucido, pulito, confermato da quelle sue azioni, persone, momenti nuovi che stava vivendo, forzatamente lontani, diversi, opposti. E più si allontanava, e più si accorgeva che tutt’intorno c’era sempre e solo quello. A… a prescindere.

D’un tratto, si ricordo pure di una riflessione, fugace, del giorno prima. Nonostante si fosse sforzata stavolta, la fiducia riposta in quell’uomo era stata calpestata, ma sorpresa, non le fece male. Solo una ventata di fastidio, e appunto, la riflessione, di non riuscire a scrivere una storia nuova, per se’, senza ricalcare le stesse cose di un passato troppo uguale.

Girava il caffè muovendo lentamente la tazza, nemmeno fosse un buon vino rosso, e guardò le onde scure che lasciavano sui bordi, scendendo e risalendo appena ritornava l’onda. Assaggiò, quell’aroma sempre uguale, preso d’abitudine ogni giorno.

Si disse, potrei cambiare. Rompere. E’ tutto troppo uguale per darmi qualcosa, ormai non mi fa più effetto, è… inutile.
Poteva cambiare caffè, uscire a prenderlo al bar, provare a cercare un caffè finalmente… buono. E invece, decise di non berne più.

Avrò più tempo per me, si disse. Come se la caffeina, e l’amore, fossero la stessa droga, da cui provare a liberarsi.

ah yeah

ah yeah

Sveglia. Gabry vestiti, trucco, merenda, buonopasto, mac e flauto, auto, semaforo, scuola, baciomiraccomando, traffico, ufficio, macchinetta, lavoro, telefono, pc, problemi, networkin’, hodimenticatoilpranzo, tangenziale, parcheggio, scuola, allieve, diaframma, non stringere, di nuovo in macchina, triestina, buio, casa, gabry, cena, lavastoviglie, vai a letto, buona notte, sudoku, le palpebre crollano, click.

E invece, mi sveglio.

Il piumone mi si aggroviglia addosso, il buio attorno fa casino, mi sveglia, intonso dei miei pensieri, stasera non se ne vogliono andare. Come farfalle macabre mi girano attorno, si appoggiano alla mia voglia di tranquillità, si infiltrano sotto pelle, e bruciano. Piccoli spilli, continui, le cosedaricordare, le cosedimenticate, lecosedafarechesenonlefaisonguai.

Accendo la luce, mi tiro su. Ella apre gli occhi distratta, di base ignorandomi, solo indispettita dal cambio di routine. E penso. Calcolo, quando mi son fermata l’ultima volta?…due settimane fa. Non è bastato? No, a quanto pare no.

Respiro, penso, mi faccio forte, ricalcolo. Spostiamo questo qui, e quello lì, come una stanza piena di troppi mobili ingombranti, vedremo di sostituirne alcuni, rendiamo tutto più funzionale.

Vale la pena? Questa nonvita, correrecorrere, non aver tempo per se’, dipendere dal planning di una giornata decisa al minuto?

Dovrei fare la spesa. Andare a farmi quegli esami, leggere un libro, fare una corsa in bici, pulire casa a fondo, comprarmi un maglione nuovo. Uscire a cena con Nadia, colorare i disegni con Gabry, andare al mare, sellare Secret e farmi l’argine al tramonto.

Spengo la luce. Devo dormire, questo è l’orario in cui si dorme. Domani poi non reggo, se non dormo. Devo pensare, pensare a qualcosa. Quel qualcosa che vale la pena. Vale la pena per tutto questo.

Ah yeah. Ecco. Quando acchiappavo note, martedì, nella mia lezione. Quella lezione per cui sto stravolgendo e sacrificando tutto. Ah yeah, ha detto. E ignoro cosa io abbia fatto, solo (ostinatamente) quello che passa direttamente, dalla pancia alle dita, alle labbra. Uscendo con quei ricami di note che non so comandare, perchè comandano loro.  Ah yeah. Un commento, che gli è uscito così, a dirmi che è la strada giusta. Tardi o presto, tutto si evolve, io mi evolvo, io vado avanti. Io, dico la mia.

Mi addormento, abbracciando il cuscino, gongolandomi nelle mie certezze. Vale la pena, ah si, se vale la pena.

cambio

cambio

Ci penso. Ah se ci penso.

Come una liberazione, ammetto. Come dover decidere di cambiare macchina, sebbene non ci si sia mai lamentati prima. Come cambiar lavoro, e non sentire di punto in bianco alcun legame con gli storici colleghi. Come cambiare città, casa, famiglia. Dimenticandosi quello che c’era prima.

L’amata routine, quella che fa sempre compagnia. Tutto ormai è superato, come immagini di paesaggi che schizzano dietro, quando la macchina è lanciata a mille all’ora.

Io, sono lanciata a mille all’ora.

Loro, loro mi mancano. Mi mancano, e mi mancheranno. Ma ormai ho preso il via.

le vecchie abitudini.

le vecchie abitudini.

Pedalo, il sacchetto della spesa del super da un lato, le scarpe appena risuolate dall’altro, i due sacchetti agganciati al manubrio, che dondolano ad ogni giro di ruota.

Pedalo, e penso alla vicina del primo piano. Non la saluto mai, non sa nemmeno che esisto tanto. L’ho sentita scender le scale, e lo so che va sempre di fredda, coi figli la borsa le cartelle… le ho lasciato aperto il cancello. Le lascio sempre aperto il cancello. Per farle una cortesia. Non lo so perchè, forse son troppo vecchio per perder la buona educazione, quella delle cose fatte senza aspettarsi il grazie.

Cavolo, ho dimenticato il burro. Vabbè, metterò l’olio. Vivo da solo, esisto da solo, e compro ancora tutto come se avessi una famiglia. Come se avessi mai avuto moglie, come se avessi mai avuto qualcuno. Qualcuno con cui parlare, qualcuno di cui occuparmi, di cui preoccuparmi. Oh beh, poi è anche vero, sto bene da solo. Le mie cose, le mie abitudini, la mia bicicletta e il pomeriggio con la tv e i miei libri.
Senza nessuno ad interrompere.

Interrompere… Già solo il suono del telefono, mi fa trasalire. O la postina. Mai una volta mi dicesse “Buongiorno Mario, come sta”, oh beh, magari la tratterei male. Ma nemmeno “postaaaa in cassettaaa”, con quella voce ispida. Mi ricorda la moglie del calzolaio, donna brutta e insolente. L’ho vista prima, guardarmi con disprezzo perchè ho portato a rinforzare il tacco alle scarpe nuove… Le buone abitudini, eh si mia cara signora. Le scarpe poi durano di più. Se questi giovani sapessero, altro che discoteche, altro che internètt, e bighellonare e spender soldi al bar… Altro che crisi. Come ai tempi miei bisognerebbe.

Mah. Passo il semaforo (vabbè, anche se è rosso, sono una bici, cavolo, eppoi sto pensando). E mi investe un camion. Un camion, dico, esce dalla carrozzeria qui, in via Torino, e mi ammazza. Porco boia, non ho nemmeno i documenti.

Mi prendono le chiavi di casa, mi mettono nell’ambulanza, mi coprono con un telo. E aspettano. Aspettano che qualcuno mi cerchi. Macchè, non sanno chi io sia, e nessuno chiede di me, nessuno che nota la mia mancanza.

La vicina trova il cancello aperto, con i vigili che entrano in casa mia, cercano di capire se sono io, quello morto investito. Se non morivo, glielo dicevo io. La vicina passa oltre, dice che ero schivo, mica che ero educato. Sanno chi sono… la voce stridula della calzolaia, che scrive i nomi sulle scarpe, vecchie abitudini, senza quella non ne venivano a capo di chi io fossi.

Poi oggi, articoloni sul giornale. Il sociologo che fa l’analisi psicologica della mia solitudine… ma che ne sa. Io sto bene.

Lo so, non c’è nessuno che mi farà il funerale, è quello il problema che li tormenta. Mo’ come fanno con me morto e nessuno che mi reclama.

Ho risparmiato, vedi. Taci che non ho preso il burro, era un peccato sprecarlo.