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fine giornata

fine giornata

Pioveva, pioveva sempre. Un saluto a tutti, ci vediamo la prossima, chiudi bene il cappotto, evita la pozzanghera, chiudi l’ombrello e chiuditi in macchina.
Poco prima, tutti spalla a spalla, e ora tutti nel microcosmo della propria casetta sulle ruote, a placare discorsi, ragionamenti, prese in giro. La radio che riempie quel vuoto di parole improvviso, abbassando l’adrenalina, e la reattività della vita sociale.

E una solitudine, un vuoto. Vorresti quasi prendere il telefono, chiamare qualcuno, occupare il tempo e prolungare il “sentirsi tra amici”. O raccontare, a qualcuno, questa giornata, i tuoi progetti, i tuoi impegni, i tuoi pensieri.

Ma anche no.

C’è una Romea lucida di pioggia, pochi camion lenti da sorpassare, il tergi che batte il tempo di musica lounge anni80.  E la stanchezza che ti avvolge, ti rallenta i battiti, e il viaggio ti piace. Tu, il microcosmo dentro l’auto, i pensieri liberi che se ne volano in giro, e l’elenco delle cose fatte, sentite, che si mettono in fila, un elenco del lavoro compiuto oggi.
Le gambe forse mi facevan male da prima, ma solo ora si risvegliano, con tutte quelle ore in piedi, e le orecchie riposano, fan sparire i vari timbri di voce dei miei amici, colleghi, e mille musiche, come quel pattern lì che non mi tolgo dalla mente. Lo ripasso ancora, mi dico, è ora che rielaboro tutto, in fondo sto ancora “lavorando”…

Vorrei fare il giro più lungo, per tornare a casa. Riposarmi, e stare un altro po’ con me. Perchè voglio bene, provo affetto, e tenerezza, per me.

Rallento, e mi godo gli ultimi chilometri, le luci striate dalla pioggia, e anche questa giornata si archivia.

del fidanzamento

del fidanzamento

fid

 

– Te sei incapace di fidanzarti. Non ci sei portata. E comunque non hai tempo.

Ah certo. Poi …. ho un blog.

Frequenti qualcuno, prima o poi scopre, o gli dici, che scrivi sul web…. e inizi ad inibirti, a non scrivere più “tutto tutto”. Soprattutto se vedi un altro, se rimpiangi quello di prima, o se vuoi comunque “restar su piazza” (che c’è la crisi, eh, e siam tutti precari…) o, come nel mio caso, è qualcosa di cui vorresti parlare, ma non vuoi si sappia.

Oppure, ti leggono le sue ex, e allora scrivi di notti di passioni infuocate (uh yeah), ma poi mette che legge chi non deve (argh! qui vado in bocca al solito refuso…) o i colleghi. O i miei docenti… che già quello di piano, dicendomi “…ma te sei la flauta..” mi ha inibita a sufficienza.

E’ che io, io non potrei più scrivere un tubo, qui. Sebbene pago pure il dominio, ecco, non è casa mia…. è il luogo di incontro di chiunque vuol farsi i cazzi miei, prima ancora del desiderio di leggere “a prescindere” un blog.  E a volte, come oggi, è pesante.

Mi chiedo, ma chettifrega. Chettifrega. Vivitela tranquilla, no?

Vabbè.

Io mi chiedo, ma come potrei mai avere una relazione seria, ostia, proprio da fidanzatina? Io, dico, io e il mio target, di cosa potrei scrivere? …Di politica?

Allora tutti coloro che scrivono di politica e attualità sono impegnati (aspetta che mo’ ne depenno un po’ dall’agendina allora…).

Oppure di figli, maternità, gite con la famiglia e ricette di cucina?

Poi mi ritroverei solo lettrici (ecco, non che mi dispiaccia, però, ecco,…).

Io DEVO rimanere single. Almeno su web. E’ una motivazione logica, letteraria, di stile, di coerenza. 
Poi, diciamolo, le mie amiche da anni mi inivitano a cena da loro solo per farsi raccontare le “prodezze e vicissitudini della donna single” (sai che roba),  se mi fidanzassi sarebbe la fine della mia vita sociale.

Ecco…. non è vero che non sono capace, ma almeno pubblicamente, fatemi recitare la parte. Poi, il resto, è solo nella mia testa (e nella pompa idraulica che ho al posto del cuore, cit.).

 

 

P.S. grazie per le mail e pvt per il post di ieri, ma come dire, anche lasciare un commento mica mi offende eh… 😀

Velvet is off line

Velvet is off line

Mi hai lasciata tre anni fa. 

Ho un cassetto pieno di cose non dette, non fatte non decise. E un cassetto, subito sotto, di cose saltate fuori dopo che te ne sei andato via.

Ho giusto un bacio, lo tengo ancora in tasca, e me lo riguardo. Un bacio da vertigini, sul binario, e un ammasso di “non andare, non hai mai tempo per me” che mi hai gettato addosso come una minaccia. 

Eppoi sei sparito. 

Mi hai lasciato la teoria degli hotel all’uscita degli svincoli autostradali, lo svincolo come nuovo fulcro del commercio. Mi ha lasciato mille cretinate, il lavoro, i tuoi libri comunisti, lo studio di tuo padre e una poltrona di pelle. E le parentesi, tu che eri la sublimazione della parentesi, l’uomo che avrei voluto per orgoglio, e avevo rigettato per altro.

Non che abbia rimorsi, eh. A distanza di anni i ricordi diventano bellissimi, ma io so, io so di aver fatto le scelte giuste. Certo che poi, se avessi davvero voluto, e tu, se avessi davvero voluto. Ma che ne so. Non avevo tempo (te pensa, lo dico ancora, anche a chi è venuto dopo di te, che non ho tempo) e avevo altro da fare. Cose importanti, cose per me. Per me.

Ora abito a cento metri da casa, e a te t’han sepolto a qualche chilometro da dove abitavo io. Come se tanto, non saremmo mai potuti stare. Stare. Come, cosa, non so. 

Son passati tre anni. E nello stesso giorno, tre anni dopo, un ragazzo muore in Libia. E io non so dire le parole giuste al suo amico, non so dire perchè il mio cinismo, il mio dolore è più forte. 

Quel giorno, e i giorni dopo, ripensavo a quanto investivo nelle persone “sbagliate”. Tu poi, eri l’apoteosi dell’uomo sbagliato. E mi ripromettevo di non perdere più tempo, con chi potevo perdere, senza avere nulla in cambio, senza nemmeno il diritto di poterlo piangere ad un funerale.

Io, che avevo una “pompa idraulica al posto del cuore”, condannata a rimpiangerti. Io che non so cancellare il tuo numero dalla rubrica. L’unico “segreto” di cui non puoi parlare, nemmeno quando la morte ci si mette in mezzo.

Che la morte, la morte ti squarcia in due. Si insinua nella testa, e rimbomba, e non passa, non passa mai, ttutto non ha senso, tutto è idiota, e ogni particolare dimenticato salta fuori, a sbatterti in faccia quanto quella “parentesi” fosse presente nella tua vita.

Ecco. Un lungo noioso sproloquio. Sarà che certe coincidenze mi infastidiscono.

Ad esempio, questo pezzo. Tu, che hai sempre avuto “velvet” come nickname, per sei anni. E caso vuole che sto cazzo di pezzo dei Velvet, parla di te. Per forza parla di te.

Fran, vaffanculo.

due giorni con la mamma

due giorni con la mamma

La mia mamma e io siamo andati al cinema. Abbiamo fatto una corsa, ma siamo arrivati in tempo. Eravamo quasi soli nel cinema, le ho tenuto la mano ed ero contento, ma la mia mamma di più. Guardava me invece del film, o forse guardava me perchè le immagini si riflettevano sul mio viso e così faceva due cose in una. Mi ha detto che sono il suo migliore amico. Dice così perchè sa che così lo so che non sta con me per dovere, perchè è una mamma, ma perchè insieme ci divertiamo. E’ proprio pazza, glielo dico sempre.

All’intervallo siamo andati a comprare un sacchetto con le caramelle, le abbiamo scelte dalle vaschette, quelle frizzantine e quelle gommose, un po’ di quelle che piacciono a me e un po’, ma meno, quelle che piacciono a lei.

Il film era tanto bello. Qualche scena avevo paura, ma c’era la mia mamma tanto. Poi siamo andati nel ristorante dove ogni tanto va a suonare, e lì abbiamo mangiato benissimo, è il più costoso di Mestre secondo me. Un tavolino io e lei, come due fidanzati. All’entrata c’erano due nostri amici musicisti, che mi hanno detto che somiglio tanto alla mia mamma. Lei ha detto che no, sono tanto meglio io, ma non è mica vero.

Ho mangiato le tagliatelle col ragù bianco di cinghiale. Tantissime, ma buone, e intanto ho raccontato alla mamma delle storie, dei racconti. Le ho detto del libro di Geronimo Stilton che il nonno mi aveva appena comprato, ero già alla pagina 12. Poi il giorno dopo non è andata in ufficio, per stare con me, e siamo andati a Possagno a vedere il tempio di Canova e la mostra, gipso e qualcosa, insomma, c’erano le statue grandi e la mano del Canova, quella vera, che faceva anche un po’ schifo.  Poi in macchina ho letto alla mamma  un altro po’ del libro mentre guidava.

Poi siamo andati in un negozio di strumenti, graaaaaandissssimo, pieno di chitarre e di batterie, e lo abbiamo girato tutto perchè volevo vedere tutte le batterie, e la sera la mamma aveva una prova, il batterista ha rotto una bacchetta e me l’ha regalata. E siamo tornati a casa, e in macchina le ho detto che ho finito il libro, tutto in un giorno!!, e che mi inizia a piacere l’italiano.

La mia mamma era contenta anche se non ha detto niente.  Chissà cosa pensava, quando stava con me. Però, secondo me, si è proprio divertita.

La pizza del liceo

La pizza del liceo

E’ strabiliante quanto un gruppo di coetanee, con passato scolastico simile, abbia addosso una percentuale di rughe così varia.
Questo il mio primo pensiero, accompagnato dal dover sentenziare che il tempo migliora le brutte, mentre le belle non hanno margini di miglioramento così sostanziali. Ma tant’è.

La pizza del liceo capita ogni 5-6 anni, organizzata dalla solerte Lucia, che tiene ordinatamente i numeri di telefono di tutti, forse l’unica che davvero rimpiange i bei tempi andati. Indubbio che tali ricordi, soprattutto quelli a valenza negativa, affievoliscono col tempo, e siamo incredibilmente sempre più numerosi ogni anno che passa.

Prima della cena di classe, nessuno lo ammetterà mai ma ci sono giorni di dieta, creme per il viso, scelta del look e preparazione psicologica all’atteggiamento più o meno da “io ce l’ho fatta, nella vita”. Ah si. Beh. Circa.

Il mio liceo era legato al conservatorio, indi tutti musicisti, tutti morbidamente adagiati nel bel palazzo veneziano, tra stucchi cadenti e riflessi lagunari, e note che ci riempivano la testa, e l’orgoglio. C’è sempre il gusto di scoprire, tra quelli che più s’atteggiavano, coloro che invece fanno la cassiera o il rappresentante d’auto. Che ce ne sono eh.

Uno stuolo di maestre di musica, propedeutica, musicoterapia, musicologia, musicazzologia applicata. E pensare che all’epoca GIAMMAI avremmo voluto insegnare (era da falliti, insegnare…).

E quella che dirige l’orchestra, ah si, ma se l’ho vista far supplenze di sostegno, eh sai, sui giornali si dice di tutto, eh si, è dura, non ti pagano mai. Ah lo strumento l’ho in soffitta, da anni. Io? suono solo a lezione ormai. Mah, dopo che è arrivata la seconda figlia ho dovuto smettere, sai… Un lavoro sicuro almeno ti da la pensione, ho un mutuo e due figli, siam precari a vita, eh si.

” ma tu… suoni ancora?” la domanda ricorrente.  Quella domanda che mi blocca, mi imbruttisce, mi toglie la vena ironica, io che vorrei scrivere un post irriverente, come mio solito,  sulla questione. Non mi riesce.

Di musica non si vive, e nemmeno si sopravvive. Siamo un gruzzolo di caparbi che insistono, che ci credono, che sono lì lì per i 40 anni ma si ostinano a volerci, almeno un po’, provare.
Talentuosi, per la maggior parte, che respirano aria diversa stando tutti insieme, sentendosi “speciali”, “diversi” dagli altri, vanitosamente “migliori” per aver addosso un’arte.

Le foto dei tempi, quelli con pettinature improbabili e vestiti anni 80, con accostamenti a dir poco imbarazzanti, iniziano ad intenerirci. I saggi, noi ragazzini vestiti da grandi, il Direttore e il Maestro, il concerto di Natale e l’inno a Santa Cecilia.  Tutti film sempre più sfocati, assieme a immagini di quelli attorno a questo tavolo, che davvero non calzano più col passato. Siamo migliorati, siamo gentili, siamo vecchi amici. Abbiamo la malinconia dei nostri sogni, delle convinzioni da grandi artisti, e di quella visione tutta rosa della musica, delle audizioni, delle orchestre.

Ivan lo ripete, orgoglioso: io vivo di musica, eh. Lo ripete e infastidisce. Ha trovato un giro di cantanti americane, le accompagna, ha accompagnato un playback in rai l’altro giorno. Marchette, certo, un compromesso come un altro. Un po’ come il mio, a lavorare in comune.

Ore a ricordare, a riderne, vediamo di trovarci presto. Eh si. Più avanti, per fare ancora il punto della situazione. Come se tutti corressimo soli, ma appartenendo alla stessa squadra.

Torno a casa, e me lo chiedo ancora, chissà se ce la farò, a combinare qualcosa, …….chissà se non è troppo tardi.

 

 

 

 

 

P.S. Alla domanda “senti… dopo anni, posso chiederti? Ma chi ti sei fatta del Conservatorio??” ho capito che, si, l’immagine da mangiauomini ce l’ho dai tempi del Liceo. Bisogna rassegnarvisi.
Un uomo distinto.

Un uomo distinto.

Sta cantando. Cammina per la strada, e canta.

E’ un barbone, un disadattato, è un pazzo, un drogato

Le scarpe lucide, i pantaloni con la piega, un cappotto distinto e la sciarpa legata come di moda.

E’ un ubriaco, un folle, quello s’è fatto troppi bianchetti, poveraccio, che società infame

Cammina sorridendo, e canta. Anzi, canticchia, pure stonatuccio,  senza vergogna. Canta, per la strada, ad alta voce, senza le parole.

Allora è una pubblicità, sarà uno che deve farsi vedere per qualcosa, o è una candid camera?…

Cammina in mezzo alla gente, la gente lo guarda, con sospetto, gli gira pure attorno. Lo fissa. Alcuni studenti, vestiti tutti uguali, lo vedono cantare, e scoppiano a ridere, prendendolo in giro sottovoce. Due signore fanno commenti di disprezzo, che metterebbero in imbarazzo chiunque.

Ma cosa fa? Canta? Per strada?

Ogni tanto fa una pausa, e poi ricomincia. Attraversa il viale, in mezzo al traffico, e canta. La voce soffocata dall’acustica secca, un po’ di fiatone e il tempo scandito dai passi.

Certo che c’è gente strana in giro 

Lo incrocio. Sorrido. Inizio a cantare anch’io, seguendolo per la sua strada.  Fosse un film, mano a mano che proseguiamo dovremmo acquisire nuovi coristi, fino a diventare un cordone musicale, come quelli che seguivano Forrest Gump.

In realtà. Arriviamo al semaforo, io prendo un’altra strada. Lui prosegue, cantando, verso la stazione, io volto nell’altra strada. Il mio berretto trendy in testa, il giubbetto di marca, i pantaloni dentro gli stivali di moda. Canto, un altro po’, ma a bassa voce, mi guardano tutti, ecco, …faccio finta che si son sbagliati e smetto subito.

I miei passi frettolosi, i miei pensieri, ed annego di nuovo nella folla.

il maestro di musica

il maestro di musica

Il mio Maestro in conservatorio era… grezzo. Non mi vengono altri appellativi.

Facevo lezione, il leggio al centro della stanza di quel bel palazzo veneziano, e lui a guardar fuori dalla finestra, le mani dietro la schiena, la bacchetta tra le dita, immerso in  ragionamenti suoi. Era un sindacalista, oltre che un mediocre flautista, e aveva sempre (non trovo nuovamente altri termini) i suoi cazzi a cui pensare.

Finivo il brano, o lo studio, e calava qualche minuto di silenzio. Usciva dal torpore e ripeteva i medesimi commenti “eh ragazza mia, però poteva venir meglio, queste imprecisioni…e vabbè, andiamo avanti”. Un cerchio a matita  sul numero dello studio successivo, e via andare. Non aveva seguito una nota. E io, su venti studi, ne saltavo dieci, e riportavo due volte gli stessi. A volte, a salti.

Eppure ero bravetta. Facevo i miei concerti, suonavo in orchestra, studiavo tutto il giorno. Lui insisteva perchè abbandonassi il liceo, che a un musicista “non serve”, per partito preso. Spesso assistevo a scenate assurde, spartiti che volavano in canale, leggii fuori dalla porta, grida e parolacce, se non bestemmie, e allievi in lacrime. Sapeva umiliare, sapeva gettarti addosso la sua mediocrità.

Quando poi ho deciso di cambiare conservatorio, se ne stupì, addirittura. Avrei mollato, inutile fare un conservatorio in questo modo, ma mio padre me lo impedì, sant’uomo.

Feci il compimento inferiore, senza che mi ascoltasse una sola volta il programma che portavo. E poi, mi trasferii per fare il diploma altrove. Dopo anni, i commenti sulla mia “fisicità”, non certo sulle mie doti musicali, riferitomi da altri insegnanti, mi fecero andare in bestia.

Non l’ho accoltellato. Ho semplicemente dimenticato. In quei 5 anni ho imparato, ho studiato, ho scoperto la musica, grazie anche al suo menefreghismo nei miei confronti. Ero incentivata dal migliorare, non obbligata da altri, ma dal mio orgoglio. Quindi, grazie anche a lui sono ciò che sono, suono ciò che suono.

I miei allievi sono quasi tutti sopra i 13 anni e quindi perseguibili penalmente, per mia fortuna… Però, se mi accoltellassero, io mi chiederei davvero, se non ho esagerato.

Me lo chiedo sempre, se è colpa mia. Ecco.

san valentino

san valentino

 

Ora chiudi gli occhi. Rimani qui, al sicuro, nel mio abbraccio. Non occorre parlare, a noi, i nostri pensieri sono gli stessi, il nostro cuore batte all’unisono, senza timori. Noi, che abbiamo superato tutto insieme, noi che ci guardiamo negli occhi e ci sentiamo a casa. Non saprei più pensare alla mia vita, senza di te. Così, banalmente. Io vivo, ma ogni cosa la vivo davvero solo raccontandotela, la sera, prima di addormentarmi, cercandoti nella tua parte di letto.

Ti guardavo, sai, ieri sera. La nostra cena normale, i tuoi begli occhi riflessi nel bicchiere di vino, guardando un Tg, con la felpa di casa. Assorto, nei normali pensieri, polemico, in un commento come un altro, con quel tuo modo di agitare il bicchiere giocando con le onde del vino, ipnotizzato, per poi imbarazzarti un po’ mentre ti fisso.

Già, ti fisso, amore mio. Anche se sto voltata a caricare la lavastoviglie, e sbucci una mela, mezza per te, mezza per me. I movimenti dell’abitudine, mentre ho i capelli arruffati e una felpa stropicciata. Tu, che mi dici che senza trucco sono più bella. Io, che non vedo altro che te.

Non vedo altro che te.

Tutto un amore, normale. I nostri discorsi, le tue prese in giro, le mie prediche, il mio disordine e le tue manie mescolate in una casa piena di noi, che ormai confondo il mio e il tuo, confondo mesi e ricordi, e non lo so più da quando le nostre abitudini hanno iniziato a rassicurare i miei giorni.

A volte ci penso, senza di te, sarei qui da sola. Non avrei il tuo abbraccio, quello di ogni sera, guardando la tv. Quello che mi regali appena mi avvicino a te, già seduto sul divano, col braccio alzato a invitarmi in fianco a te, perché il mio posto è lì, appoggiata al tuo petto, addormentata con la tv che mi dipinge di riflessi il volto.

Tu che mi prendi in braccio, come fossi una bambina, e mi metti a letto. E vorresti svegliarmi, per fare l’amore, per una sera che possiamo andare a dormire tardi….Ma non lo fai. Stai a guardarmi, a sussurrarmi che mi ami, mi ami da morire, e io fingo di dormire per sentirtelo dire ancora, e ancora.

Ecco…. a volte ci penso. A quanto vorrei, tutto ciò esistesse.

gli arcobaleni

gli arcobaleni

A conti fatti, che rimane?

Una serenità palpabile, che avvolge tranquilla le mie cose, le mie persone, le mie ore che scivolano al ritmo di impegni che mi piacciono. La mia via, le mie giornate, le mie cose, ancora, mi piacciono. Mi piace vederle, senza alcun riferimento fisiologico, come “le mie cose”.

Avevo una scala di priorità, di sogni, di obbiettivi, una di quelle liste di “buoni propositi”, di step obbligatori da inseguire, di nodi da sciogliere. Ora si sono sciolti, dissolti, o hanno perso di importanza.

Sto sulla riva di una spiaggia, davanti ad un mare senza onde, il battito regolare, il respiro sereno, disegnando iniziali sulla sabbia. Iniziali a caso, chiavi di violino, cuoricini, stelline. Casette, alberelli.

E adesso. E adesso?

Ho sconfitto i draghi, ho domato le onde. E’ tutto tranquillo.

E’ il momento di studiare, di stare bene, senza passioni travolgenti, senza dolori che trafiggono, senza risvegli ansiosi alla mattina.

Bello, eh, che adesso è tutto a posto.

Però.

Però io, di sta tranquillità, mi son già rotta i maroni.

Una flauta (non) in pretura

Una flauta (non) in pretura

Mi penso già che metterò su twitter “condannata” o “assolta”, perchè sono un’idiota 2.0.

Di solito mi capita che accade tutto quello che non avevo previsto. Un rinvio, o una sconfitta totale, o una mezza vittoria. La fine, dell’altra, è arrivata con me che, dopo aver firmato, uscivo dal tribunale di Venezia ripetendo all’avvocata “ma è finito? ho vinto allora? è deciso?” rincoglionita.

L’altra volta invece, l’ultima udienza, era così palese una condanna che ora cerco di prepararmi al peggio, all’appello, alle risa di marito e suoceri per aver vinto una causa talmente assurda. E la rabbia che vorrei tanto smettere di provare, assieme a tutte quelle cosucce che archivierei volentieri.

In questo periodo. Questo momento stressante e magico, in cui mi sento così serena, col mio flautino in spalla e tante cose da pensare, tante energie da distribuire nelle mie passioni, tante coccole da poter fare al mio nano.

Ieri pensavo ad un viaggio, sarebbe bello poterlo fare per festeggiare (non pensarlo, non dirlo, porta male!) e stasera uscire e offrir da bere a tutti (non ripeterlo, porta male!) e riderne.

O forse, dovrei festeggiare lo stesso, anche se mi condannano. Festeggiare che la mia coscienza rimane, in tutto e per tutto, candida. Lo rifarei, mio caro giudice, mi spiace dirlo… mio figlio viene prima.

Ho cambiato avvocato. L’ho sentito ieri, mi sembra in gamba. Non sono andata in tribunale, non ne posso più di sentire la stessa identica pappardella, esser dipinta come una stronza dall’uno, e una santa dall’altro. Sto qui, lavoro, poi vado a far lezione ai miei ragazzi.

Loro stanno decidendo, lì in tribunale, e io qui, butto nel blog i miei confusi pensieri, come uno shangay, che ne muovo uno e si muove l’altro, nella sciocca convinzione che in base a ciò che penso ora, il destino deciderà come “farmela pagare”.

E così, se son troppo ottimista, o se non mi dànno abbastanza, mi condanneranno sicuramente. E chissà a cosa.
Un’idiota scaramanzia, ecco.

Non me lo merito, questo penso. Ma se decideranno in modo inverso,  andrò avanti. Mi tocca. Ora, ora mangio e vado a lezione.
Che le grandi tragedie delle persone normali, non permettono giorni di ferie. Tutto, ugualmente, s’ha da fare.

 

Update

…….Assolta!