ancora

ancora

Scivolò fuori dalle lenzuola, le caviglie strette ad accarezzare il limite del letto, le mani distratte in cerca di una maglietta troppo grande per coprirla dal primo brivido della mattina.
Il sole già si intrufolava nell’intimità dell’alba, inondandole la cucina di riflessi d’allegria.
Una doccia calda, caldissima, a toglierle le carezze e gli umori dell’amore, un getto fitto a pettinarle i capelli, correndole attorno al corpo ancora intorpidito. Gli occhi chiusi, senza alcun pensiero dentro. Una pace, estrema, e l’aver scordato il giorno, l’ora, il mondo attorno.

Un accappatoio caldo a stringerla a se’, il volto senza trucco come d’una bambina, a sorriderle appena nello specchio, sognante, mentre ridisegnava l’ordine dei capelli. Una giostra di sensazioni, di parole, di imbarazzo nel ricordo del suo poco pudore, quella notte. Dell’aver dato, dell’aver chiesto, dell’aver guardato negli occhi, senza ritegno. Il gioco eccessivo delle parole, il lieve osceno, la giocosa volgarità. E sciogliersi nel sonno, tra le braccia di un affetto.

Il giorno villano stava già prendendo possesso della città, come a voler rimettere le cose in sesto, volendo spegnere l’aura di sogno, riaccendendo l’ordine degli appuntamenti, l’orario dei pullman, le televisioni accese, le urla dei bambini in gioco per strada.

Si infilò di nuovo nella sua stanza, impedendo al giorno di riprendersela, cercando ancora il calore della notte sul suo posto, nel letto. E anche lui se la riprese, in un abbraccio quotidiano, ritrovando il calore della pelle su di se’. E piano, senza far rumore, le disse amore, amore, amore.. ho ancora voglia di te.

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la fine delle vacanze

la fine delle vacanze

L’ultimo giorno ti devi svegliare presto, prima delle dieci. Ti sciacqui la faccia, e fissi i tuoi lineamenti senza trucco, che per giorni hai potuto evitare. Raccogli gli spazzolini, il balsamo, il costume messo ad asciugare. Impacchetti le tue cose, hai ancora un’unica maglietta pulita rimasta, giusto per il viaggio. Fai colazione, tra mille tipi di marmellata, le torte fatte in casa, e la frutta, la frutta fresca. E da domani, briosche e caffè in piedi, al bar. Chiudi il caos delle tue vacanze nelle valigie, raccogli i ricordi, sparsi in conchiglie, biglietti, sabbia e pelle ambrata. Carichi la macchina, senza ricordare la logica con cui hai composto gli spazi alla partenza. Saluti al parcheggio le amicizie delle vacanze, che non incontrerai mai più nella vita, saldi i conti, lasci lo sguardo sulle sdraio di legno, in mezzo al prato, da dove hai visto le stelle ogni sera. Ti riempi gli occhi dei colori dolci dei fiori, del celeste del mare, lì in fondo, oltre l’ultima curva delle colline marchigiane. E riparti per la tua vita, uscendo da quell’immagine da salvaschermo che ti è passata velocemente addosso. Si torna a casa, dopo aver visto il paradiso.

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Scesa dai tacchi

Scesa dai tacchi

Inciampo’, da sopra quel tacco troppo alto e pungente, in quel canyon formato dallo scalino e la carreggiata sporca di polvere e vite di passaggio.
Inciampò per lo sgambetto dato dai suoi pensieri, che le aggrovigliavano i movimenti, ingrossando le caviglie ed appesantendole i passi. L’inerzia e l’inedia del corso della sua giornata, senza fermarsi un istante a smettere, smettere, smettere di pensare.

Inciampò. La mano ad accarezzare la caviglia, tentando beneficio da una coccola inutile,come se frizionandola le potesse scomparire il dolore delle sue scomode certezze.
Non riusciva a riappoggiarla a terra, a caricarla del peso del suo corpo, e delle sue responsabilità. Si appoggiò ad un palo, guardandosi intorno smarrita, alla ricerca di un punto dove potersi sedere un momento. Non c’è mai, quando lo cerchi, un posto dove poterti mettere in stand by un poco.

Ci provò, niente, il dolore era troppo forte, non riusciva a proseguire. La bellezza di quelle scarpe troppo alte, troppo belle per potersele godere, troppo perfette per alzarla sopra gli altri, dandole il ruolo che nemmeno da se’ sapeva meritarsi.
Si appoggiò sul bordo rialzato di una vetrina, impacciata nei jeans troppo stretti, forse per tenerla su come un’impalcatura. La sua immagine di ritorno, riflessa sul vetro del negozio. La sua immagine senza le sue certezze e sicurezze e protezioni, senza il suo ruolo. Lì, una semplice donna di quarantanni (ne ha di più, lo sa, ma vuole dimenticarseli), azzoppata dalla sua autostima, il viso scavato da troppi sorrisi perduti, le mani magre e troppo in ordine, gli occhi senza fondo. Cos’era diventata?… Ma figurati, scacciò la riflessione idiota, da filmetto di terz’ordine. Sono un dirigente, ho degli impegni, degli incarichi.

La caviglia pulsava. Cinque, sei anni prima (oddio, quand’era l’ultima volta che?) avrebbe chiamato lui, lamentandosi imbronciata. Lui che l’avrebbe presa in giro, per poi raccoglierla e curarla, come una bimba col ginocchio sbucciato, e alla fine avrebbe riso, perchè davvero i tacchi non le piacciono, non si corre, non si gioca coi tacchi, si fa troppa confusione per i corridoi, coi tacchi. Preferiva stare scalza, la mattina, con addosso la maglietta di lui, a ciondolare sulla sedia della cucina con la tazza di caffelatte, con sopra un po’ di cioccolato, e i biscotti, i biscotti intinti dentro, attenta a non immergerli troppo altrimenti si squagliano subito…. E i suoi capelli, spettinati dalle carezze e dall’amore, le sue guance ancora arrossate dall’imbarazzo del piacere, nascondendo lo sguardo per la lieve vergogna di aver, forse, perso il controllo delle parole e dei respiri. Il suo caldo abbraccio, forte, protettivo, imperturbabile, nel quale sentirsi al sicuro. Al sicuro. Senza il bisogno di doversi difendere da nulla.

Prese il Blackberry, chiamò la segretaria “mandami una macchina, ho avuto un contrattempo”, tornando con metà della mente al suo ruolo, e l’altra metà a pensare all’assurdo, del suo vecchio piccolo nokia coi tasti smarriti, e i pupazzetti che ciondolavano attaccati. Un’altra vita, altre scelte.

Voltò pagina, e proseguì.

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su, giù.

su, giù.

La capacità di salire, salire sempre più su, e gioire della propria esistenza presente.

Sentirsi bene, con la forza di un leone.
Avere attorno ciò che si è sempre desiderato, essere ciò che si è sempre sognato diventare.
Così, semplicemente, in quest’ordine.

E poi, implacabile, scivolar giù nello sconforto, per nulla.
Senza voglia di uscire, vestirsi, pettinarsi i capelli.
Sentire tutto attorno insopportabile. Sentirsi, insopportabile.

E aver voglia solo di rinchiudersi in casa, sul divano, guardando pessima tv.

E attendere il prossimo volo.

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Un giorno, adesso.

Un giorno, adesso.

Un giorno ci lasceremo.

Senza clamore, senza sapersi dire molto, stanchi e provati da litigi ed incomprensioni, o solo scevri di passione e troppo fratelli per poterci dire amanti.

Divideremo con calma il mio e il tuo, che prima erano il nostro.
Avremo moti di rabbia sommessi, raggrinziti dall’orgoglio, e ci tratterrà dal discutere solo l’idea di una nuova vita che si prospetterà di fronte.

Raccoglieremo quadri, musiche, maglioni, in scatoloni divisi, lasciandone l’ombra sui muri, le orecchie, addosso.
Avviseremo gli amici, e ce li divideremo poco a poco, accantonando l’affetto che ancora ci rimarrà dentro, in uno sgabuzzino del cuore, assieme alle carte della nostra vita insieme.
Ed ogni volta, parlandone, troveremo nuove scuse per dar colpe all’altro, come se tutto quel che eravamo fino ad allora non l’avessimo amato in ogni millimetro. Avremo motivazioni irreprensibili, giustificazioni logiche, come se quella fosse stata l’ideale risoluzione di un contratto che aveva smesso d’esser proficuo per entrambi. Le recriminazioni, ormai, saranno archiviate come.. inutili.

Tu avrai un’altra, forse, io avrò un altro, forse.
E parleremo l’uno dell’altra come ora facciamo di chi è passato nel nostro letto prima, raccontando i fatti e le parole, e celando l’amore. L’amore, quello che un giorno, svegliandoci la matttina, puff, scomparirà. E rimarrà qualcosa che non sapremo collocare, tra l’abitudine, l’amicizia, l’affetto e la stima.
Ci diremo soltanto, vabbè, è finita. Forse uno dei due non vorrà mollare subito, forse io, forse tu. Forse soffriremo, e ci andrà in pezzi il cuore, un rumore sordo, senza più musica.
Gireremo nelle nostre stanze, senza trovarci. Soli, senza di noi.
Riusciremo a non incontrarci più, a dividere le strade, a separarci il futuro, e le note.

E piano piano, non saprò più nulla di te, dimenticherò la tua voce, le tue mani, il tuo modo di mangiare il gelato girando il cucchiaino, i riccioli bagnati sotto l’accappatoio, il caos della tua macchina e dei tuoi fogli. E forse, anche i tuoi occhi chiusi e la tua testa reclinata sulle dita.

Ma adesso, suona ancora per me. Perchè adesso, adesso non voglio pensarci.

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il concerto per la nonna

il concerto per la nonna

La nonna si sedette sulla sedia, alzando al massimo il volume dell’apparecchio, e un sibilo partì come fischio d’inizio del concerto. 

Il piccola grande artista, spinto dall’inerzia dell’entusiasmo, seduto in terra coi suoi bonghi tra le ginocchia, iniziò il suo pezzo. Un assolo, improvvisato, uscito chissacome chissadadove, nella sua fantasia di bambino. E imitando i suoni che lo hanno cresciuto, svolse la matassa delle sue note, giocando coi ritmi e con gli accenti, imparati senza volontà forse, colti nel prato delle musiche che ha incontrato, gettando le dita sulla pelle di quei tamburi come pennellate di un geniale ed inconsapevole giovane Van Gogh. Più piano, più forte, cresco, diminuisco, tutto un discorso logico nella sua mente, come non si potrebbe mai spiegare in altro modo.

E poi ancora, a scegliere cosa suonare ancora, con la sua mamma e Giulio. Una mamma che non sa, che vede l’inerzia dell’incoscienza spegnersi negli occhioni azzurri del piccolo percussionista, la paura di non essere capace, di far figuracce, di cosa come perchè. Vederle in lui, rivederle in se’ stessa. E chiedergli senza parole, tieniamoci per mano, magari riusciamo a farlo, tutti e tre, insieme, a superare i piccoli guadi che ci separano.
Everybody need somebody to love. Ma blues.

Vedere come l’essere stati la stessa carne li rende uniti in un’empatia superiore, e come la logica della struttura, delle note, e di tutte quelle cose che in musica non si possono insegnare, erano tutte dentro quel cuore di bambino. E in fianco, l’aria fresca, equilibrata, affettuosa e sincera a sostenerci. E la mamma, chissà che suonava, era intenta a controllare l’emozione di vedere il suo piccolo capolavoro all’opera, e le dita andavano da sole, senza farsi dir nulla.

La flautista, il pianista accompagnatore, e il grande percussionista, finalmente insieme nella loro prima jam. 

E da qui si comincia.

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Il concerto per la nonna

Il concerto per la nonna

La nonna si sedette sulla sedia, alzando al massimo il volume dell’apparecchio, e un sibilo partì come fischio d’inizio del concerto.
Il piccola grande artista, spinto dall’inerzia dell’entusiasmo, seduto in terra coi suoi bonghi tra le ginocchia, iniziò il suo pezzo. Un assolo, improvvisato, uscito chissacome chissadadove, nella sua fantasia di bambino. E imitando i suoni che lo hanno cresciuto, svolse la matassa delle sue note, giocando coi ritmi e con gli accenti, imparati senza volontà forse, colti nel prato delle musiche che ha incontrato, gettando le dita sulla pelle di quei tamburi come pennellate di un geniale ed inconsapevole giovane Van Gogh. Più piano, più forte, cresco, diminuisco, tutto un discorso logico nella sua mente, come non si potrebbe mai spiegare in altro modo.

E poi ancora, a scegliere cosa suonare ancora, con la sua mamma e Giulio. Una mamma che non sa, che vede l’inerzia dell’incoscienza spegnersi negli occhioni azzurri del piccolo percussionista, la paura di non essere capace, di far figuracce, di cosa come perchè. Vederle in lui, rivederle in se’ stessa. E chiedergli senza parole, tieniamoci per mano, magari riusciamo a farlo, tutti e tre, insieme, a superare i piccoli guadi che ci separano.

Everybody need somebody to love. Ma blues.

Vedere come l’essere stati la stessa carne li rende uniti in un’empatia superiore, e come la logica della struttura, delle note, e di tutte quelle cose che in musica non si possono insegnare, erano tutte dentro quel cuore di bambino. E in fianco, l’aria fresca, equilibrata, affettuosa e sincera a sostenerci. E la mamma, chissà che suonava, era intenta a controllare l’emozione di vedere il suo piccolo capolavoro all’opera, e le dita andavano da sole, senza farsi dir nulla.

La flautista, il pianista accompagnatore, e il grande percussionista, finalmente insieme nella loro prima jam.
E da qui si comincia.

Don’t Explain

Don’t Explain

Volete davvero che vi racconti di quella volta?

Ah, mica c’è molto da dire. E’ tornato a casa, uno dei miei mariti sbagliati, con addosso un’altra. Il suo odore, le sue carezze, i baci di un’altra, il rossetto di quel rosso che ti prende a schiaffi, stampato sul collo della camicia, una camicia bianca, candida come le sue bugie. Ma che si fotta, lui e le sue bugie.

Gli uomini pensano sempre che non ce ne accorgiamo, quando non ci amano più, solo perché non glielo diamo a vedere. Ah, ma io lo so. Mi accorgo dalle piccole cose… ad esempio, non mi menava più. Perché quando ci si mena, anche quello è amore, perchè non permetti ad altri di farlo.

Mi hanno violentata. Ero una bambina. E poi ancora, due anni dopo. E sai il ridicolo? Mi han cacciata in riformatorio due volte, come fosse stata colpa mia, proprio io che non m’abbassavo a prender i soldi con le cosce, come le altre puttane del bordello. Per quello mi han chiamata “lady”, che credevi?
Il mio primo marito mi ha regalato la dipendenza dall’oppio. Il secondo ha fatto meglio, mi ha dato l’eroina. E’ per quello che son qui dentro, la testa tra le mani e nemmeno la forza di prendere il secondino a calci. Mi son voluta difendere da sola, o condannare, ecco, meglio. Perché non so uscirne da sola, perché è colpa mia, se non so smettere con la roba, e se non so amare che bastardi, e non so essere una donna migliore di questa baldracca nera che vedo allo specchio.

E se sono sola. Invisibile in mezzo al mondo, che ti fuma pessimo tabacco addosso, si pulisce i piedi sul tuo corpo, si vergogna di te e del tuo sporco colore. E non sa proteggerti, mai, da questo maledetto dolore che mi mangia dentro.

Tremo, d’astinenza. Cerco, nella mia testa, un pensiero bello che mi aiuti ad arrivare a domani. Son ore che ci penso. Mi viene in mente solo Prez. Prez che mi carezza i capelli con le sue note, il suo sax che brilla, il fumo della sua cicca che si alza, leggero, a disegnare il blues che dovrei cantare. I nostri blues…  io, la sua sorella voce, che gioco a note come fa lui, pensandomi anche io come uno strumento che soffia fuori emozioni da un tubo.

Ma la voce non esce. Non riesco, non riesco più a cantare, qui. Qui, “dentro”.

(tratto dai testi by Laflauta, per  “THE STRANGE FRUIT – Omaggio a Billie Holiday” – giovedì 24 giugno 2010 ore 21, Cantina Fasol MeninValdobbiadene, Italy)
Strange Fruit

Strange Fruit

Lo so, chi sono.

Sono solo una dannata puttana negra che puzza di whisky.

Quella che ti vergogni a far entrare dalla porta degli artisti, e rinchiudi in un sottoscala sudicio finchè non puoi sfoggiarla davanti ai tuoi amici bianchi.

E io te la sbatto in faccia, ora, la mia anima negra, le mie labbra grosse, le mani che ti sembrano lerce, e l’odore fetido della carne.. infetta.

Appesa anch’io, come il frutto strano e maledetto, impiccata anch’io, come miliardi di me, le vesti stracciate, i corpi denudati, come la mia anima ora, mentre ti canto addosso il dolore, dolore d’essere un viscido essere nero in questa tua terra bianca.

E davanti, la tua gente bianca a guardarmi, dondolare, piangere, morire, su di un palco, o appesa ad un albero.

Tanto non la rubi, la mia anima. Non l’hanno rubata nemmeno le mani sudice che mi hanno rubato del mio corpo di bambina, o gli alberghi lerci dove mi hai costretta a darmi, anche ora che violenti solo la mia voce.

Ti sembro una scema, eh? Solo una rozza donnaccia.

Una che canta dell’amore e delle altre fesserie da femmina, con la mia gardenia esagerata sui capelli irti, i gesti goffi di una grassa drogata, dalla voce acida e sgraziata. Massì. Pensa quel (cazzo ) ti pare. 

La mia voce ti graffierà a sangue, stasera. Patirai la mia sofferenza, come una lama affilata che uccide e sgomenta i pensieri, e quando avrò finito, lascerò attorno il silenzio dopo la mia ultima nota. Perché non c’è applauso, dopo la morte.

(tratto dai testi by Laflauta, per  “THE STRANGE FRUIT – Omaggio a Billie Holiday” – giovedì 24 giugno 2010 ore 21, Cantina Fasol MeninValdobbiadene, Italy)

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la decisione giusta

la decisione giusta

Vorrei raccontarti di quella volta che ho preso la decisione giusta. Che ho avuto fortuna, che ho girato la vita per il verso giusto, che ho oltrepassato il guado.
Quella volta che mi è capitato quasi come un dono dal cielo, e mi ha consentito di risolvere, sopravvivere, vivere, proseguire e migliorare la vita. Quella volta che ho potuto prendere il detersivo di marca, al supermercato. E comprato un televisore grande. E portato un bambino biondo in un’isola greca, su mari cristallini. E a cena fuori, e al parco safari, e al cinema. Quella volta che la carta di credito poteva spendere per un vestito come mi piaceva, anche se non era in saldo.
Potrei raccontarti di quando la banca mi ha proposto un investimento, invece che chiamarmi per contestarmi il rosso. O magari, il poter prendere una macchina nuova, come piace a me, senza dover impazzire per trovare l’occasione a pochi soldi, del colore che c’è, del modello che c’è.

E non dover guardare, con ansia, il credito residuo.

Vorrei raccontarti che non ho mai perso l’abitudine di perder ore a scegliere il prezzo migliore, davanti agli scaffali del super, o di scegliere di mangiare a casa prima dei concerti, invece che spendere in cene fuori ogni volta. Ma non ho più l’ansia, si, quello potrei raccontartelo.

No. Quel che voglio raccontarti, è che oggi mi sono ascoltata, e non mi sono piaciuta. Ed ero stanca, ero banale, distratta, senza forze. Rovinando tutto.

Perchè forse, se non avessi preso la decisione giusta quella volta, ora avrei tempo, avrei energia, avrei ancora la lucidità, e la voglia, di vivere la mia vita. Che non è, non è questa qui.

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