quando la musica ti riesce bene.

quando la musica ti riesce bene.

E il cuore mi sboccia.

Si apre colmo di gioia immensa, per un granello di impegno impiantato del passato, che oggi fiorisce.

E io dondolo la testa, mi lascio abbracciare dalle emozioni calde di felicità pura, semplice, onesta. L’orecchio appagato dalle frequenze esatte, dagli intervalli che si baciano, delicati, senza disturbarsi.

E stento a credere, di essere capace di farmi scivolare di dosso la mascolinità dei miei gesti, come se il mio strumento tradisse il mio animo da uomo di casa, e una dolcezza che non ho mai voluto concedere ne uscisse fuori, come carezze ad un fiore, come il soffio sugli occhi di un bimbo che sogna, come un animo che raccoglie i dettagli di un dolce ricordo.

E il caldo romanticismo senza volti o nomi o legami, solo la delicata brezza dell’emozione, senza motivi, senza fini, a cullarmi i pensieri.

E mi sento brava, e giusta, e perfetta, …. appagata.

Felice.

e dopo.

e dopo.

L’aula è un banco del mercato. Avvocati e PM che perorano la causa del loro prodotto, nostrano, esotico, incompreso, a buon mercato. Giulia è come un calzino spaiato lì in mezzo.
Ha appena smesso di deporre, Giulia. Come un testimone qualsiasi, che non ha più una lira per costituirsi parte civile, ne’ voglia e coraggio e stomaco per affrontare altri processi. Senza nemmeno il solito avvocato in fianco, amministratore del codice penale, un numerologo che parla a citazioni di articoli, senza un briciolo di conforto umano.

Fissa l’incastro delle piastrelle sul pavimento. La sfumatura del cemento, quel cemento che le sta mangiando i piedi, le gambe, mangiandola viva, sola in una panca assieme a poveri diavoli messi assieme a casuali carnefici.

Ripassa le date, Giulia. Son passati sei anni, non ricorda i particolari Giulia. Ma li ha scritti. Uno schema storico coi riferimenti ai fatti, alle minacce, ai ricoveri, certificati medici misti a improbabili foto degli sms, referti imparati come poesie, freddezza forte addosso.

Era fredda e forte, quando se n’è andata da lui. Era fredda quando ha lasciato vestiti e sogni in quella loro casa.

Mi hai fatto male, e se potessi farti pagare il male della mia anima ti chiederei una cifra immane, ma no, quella non c’è nel codice penale.

Giulia è forte,  anche di fronte al PM. Non è colpa mia, si ripeteva come un mantra, mentre l’avvocato di lui cercava di farla cadere in fallo, non son scivolata, non mi ha spinta per sbaglio, non avevo “già male prima”, non voglio vendicarmi di qualcosa. Lo sa bene Giulia, che lì sopra si rischia di sentirsi addosso la colpa di tutto, è così che funziona il gioco, da vittima ti fan vacillare, così che non ti ha picchiata, sei tu che ti sei picchiata da sola. E lì, a raccontare a un mucchio di sconosciuti, i cazzi tuoi, quelli che non racconterai nemmeno a tua madre, tanta la vergogna.

Sii lucida. Sii fredda, ma non troppo, altrimenti pensano che fingi, non mostrare il fianco. Difenditi, perchè lì in quel banco è peggio di quel giorno. E non è come nei film, nessuno ti ha accompagnata e nessuno ti consolerà.

La fuga delle piastrelle è infinita. Non sente altro che il freddo nelle ossa, rumori ovattati del mercato della giustizia intorno, e tempi morti, viavai di toghe e tacchi alti. La seduta della causa che unisce i loro cognomi, è aggiornata, tra sei mesi. Altri, sei mesi.

Si alza, infila il giaccone ed esce, anonima, in un aula che ora sa tutto della sua vita. Due passi. Ora scoppio. Tre passi, no aspetta, gira l’angolo. Non farti vedere. Quattro passi, entra in macchina, chiuditi, non c’è nessuno, non ti ha seguito nessuno.

Sei al sicuro, Giulia. Piangi, Giulia. Un poco, giusto un poco. Singhiozza, Giulia, ma non sconvolgerti. Le solite lacrime, che avevi dimenticato, bruciano il volto, uccidono la speranza di uscirne, prima o poi, e non ne hai bisogno.

Accende la macchina, controlla il viso, soffia il naso,  e torna in ufficio. Come non fosse successo niente.

La sabbia nelle mutande

La sabbia nelle mutande

Tagliava le olive senza nocciolo. Le tagliava a metà per la circonferenza, così ne uscivano due tondini, uno col cerchio e uno con la crocetta al centro.

Il suo amico lo fissava, parlandogli, vedendolo come sempre, un marziano, maneggiando una bottiglia di rosso.

– Vedi Giulio, cose buone come questo vino, eh, questa è la bella vita. Sapere che puoi tornare a casa ed aprirti una bottiglia con un amico. O anche da solo, eh, ogni tanto torno a casa e mi apro una bottiglia da solo, il bicchiere largo, faccio decantare, mi godo il profumo, un sorso per volta, eh, le bellezze della vita son nelle piccole cose.
L’amico osservava la dovizia con cui Giulio spadellava gli spaghetti. Spadellava, oddio, diciamo che era un pauroso equilibrista troppo intento a non schizzare il pomodoro in giro, e ne perdeva in coreografia.

Stessa sceneggiata per girare lo spaghetto. Intento a fare un’aggrovigliata sulla forchetta bella regolare. Non c’era uno spaghetto che scendeva più di un altro.

– Giulio, buonissima. Son certo che mi mancherà mangiar spaghetti, di certo.

Era una richiesta. Si diceva, adesso me lo chiede. Lo sapeva benissimo. Era lì per quello, ormai erano al caffè. Bisognava iniziare il discorso. Non era un buon segno che Giulio non volesse iniziare, eh no. E infatti, subito girò male.

– Senti, è dal liceo che ne parliamo. Se non si fa ora, non si farà più. Ho già fatto un programma, ho predisposto tutti i dettagli accuratamente, apposta per la tua pignoleria. Non puoi attaccarti a niente stavolta. Guarda.

Tirò fuori una cartellina. Tutto organizzato, obiettivi, tempi, appoggi. Il viaggio di una vita. Una cartina e il percorso disegnato, le ricerche su wikipedia, le indicazioni turistiche, gli amici di web da incontrare, le spiagge, le donne. Che poi, non era affatto quello il loro viaggio. Loro volevan perdersi.

Seduti sui motorini, fuori dalla palestra dell’Itis, se lo dicevano. Si va in Brasile. Si prende e ci si perde. Le braghe arrotolate sulle caviglie, la sabbia nelle mutande, torso nudo ad oltranza. Appena ci si fa due soldi, si finisce questa merda di scuola, si parte e si va. Due mesi, e se ci va restiamo lì.
-Giulio, ‘ca puttana, non puoi mollarmi adesso. Non hai legami, i tuoi vecchi stanno apposto, molla tutto adesso e andiamo. Cosa ti ferma, mi chiedo, cosa ti inventi adesso per mollarmi?

Riponeva i piatti nella lavastoviglie. Un perfetto puzzle di stoviglie e pentole, ci stava tutto. Orca, no, una tazzina. Una tazzina non ci stava.

– Non puoi dirmi che vivi bene così. Stai in un ufficio senza uno straccio di finestra, controlli pacchi di cartame e ascolti le lagne di qualche industriale frustrato che vuol tirar sui costi. E non trombi da quanto? Sei mesi?

Sperava in una reazione. Macchè. Si voltò giusto a guardarlo, come se avesse da dir qualcosa, ma poi continuò a cercar un posto a quella dannata tazzina.

– Okay, hai il posto fisso. Adesso non dirmi la solita fregnaccia che è raro trovarlo, che hai una sicurezza per il futuro e la pensione. Che vuoi fare, trovarti una donnetta bruttina e rompiballe e fare odiosi mocciosi, perdere capelli e metter su panza, e finir la tua vita così, senza aver mai vissuto? Perché così, è come non aver vissuto. Rompere sta routine del cazzo, Giu’, lasciar perder ste cose che dovevano servirci solo a far soldi per andarcene. Mica possiamo rimaner legati qui a un lavoro statale per aver “la pensioooone”, diamine, “la pensiooone”…. Per poi andarci in pensione, coi rimpianti di non esserci mai stato, con le mutande piene di sabbia, sulla spiaggia di Bahia!
Okay, la tazzina non ci sta. Attacca la lavastoviglie, e lava la tazzina a mano. Con cura, quasi con affetto, la sua bella tazzina da single, ne ha sei ma usa sempre e solo quella. Sta nei suoi equilibri, la sua tazzina.

– Giulio. Cazzo. Giulio. Io parto. Io parto uguale. Ti mollo qui, capisci? Ti mollo qui tra le tue carte, sei schiavo del sistema, ti sei piegato a diventare un impiegatino banale come gli altri. Perché, dico, perché non trovi il coraggio e ti prendi due mesi di aspettativa? Cos’è, hai paura che ti tolgano una delle pratiche pulciose che ti ritrovi? Che ti spostino la scrivania? Ti rubino la graffettatrice? Giu’, Dio bono, ma cosa sei diventato?

Lo fissa. Perché Giulio non sa cosa dire. Il suo amico lì davanti dà in escandescenze. A qualsiasi cosa avrebbe da controbattere abilmente, che la dialettica non gli manca.

Ma ora, ormai sfinito, lo saluta. Freddo, incazzato, lo abbraccia pure, lo manca affanculo con gli occhi pieni di odio, o no, non odio, delusione. Madonna se è deluso di Giulio, enormemente.

La porta si chiude. Rimane un silenzio, pieno di parole. Pieno di un’immagine di se’ che ne vien fuori, e quell’altra che se ne và in Brasile col suo amico.
Un tonfo, sordo. Un rumore di cocci, in terra.

La tazzina, la sua tazzina, è volata giù dallo scolapiatti. S’era rotta di stare in quell’equilibrio.

setteecinquanta

setteecinquanta

Ricordo il finestrino aperto del fuoristrada, l’aria addosso a schiaffeggiarmi, e parole di circostanza uscite per un’improbabile consolazione, attonite quanto me. Lui ci provava, a tirarmi su. Come se si potesse, tirarmi su.

Uscendo da quell’aula, piangendo come non mi si confaceva, gli ero corsa in braccio. Umiliata, schernita, per la mia “presunzione”, una punizione arrivata con cattiveria, ferocia, senza alcun preavviso. O meglio, potevo anche aspettarmelo, se avessi visto con giusta malizia al di là del mio naso (ma il Maestro è il Maestro, pensavo).

In fondo il voto non è importante, mi dicevano. Già, il voto non lo è mai, tant’è che quando debbo dare dei voti, non riesco mai a farlo con leggerezza. Il voto. Un numero sulla testa, voto come valenza, tu vali questo, tu SEI questo. Come se un sessanta alla maturità avesse reso certi miei compagni INTELLIGENTI, e quelli da 36 STUPIDI. La differenza tra preparazione ed intelligenza, dimenticata con un numero. Con la differenza che ognuno in un liceo ha diverse aspirazioni, mentre altri esami, come quell’esame, erano il voto al mio essere, al mio futuro, al mio percorso personale. Pure, al mio stesso nome.

E come fosse stato un feedback della propria vita, dopo mesi di abnegazione e sacrifici (oh, se ne ho fatti per quel dannato esame), era arrivata la sconfitta. Sentivo il bollo addosso, e me lo ripetevo in continuazione, per giorni, mentre vegetavo per casa, in pigiama, davanti alla tv. Mediocre. Orribilmente, mediocre.

E lui, quel sant’uomo che mi amava troppo, non sapeva, non poteva trovare le parole giuste. O forse, era soddisfatto col destino, che mi aveva tolto dalla febbre dello studio, della musica, così totalizzante da causarci litigi continui, recriminazioni, infelicità. Un po’ crudele, egoista, certo. Ma cosa darei per riavere un amore così, malato e incontrollabile.

Che fossi presuntuosa, mah. In cuor mio ero piena di paure, di insicurezze, ma la facciata di fuori era sfacciata, non poteva essere altrimenti. Per rimanerci in un’orchestra dovevi avere carattere prima ancora che doti, e io non ero fatta per fare il flauto di fila. Dovevo avere il meglio, essere la più bella, la più sveglia, e nessun ragazzetto poteva respingermi, per forza. Già, il potere dei miei diciottanni. Guai inclusi.

A vent’anni smisi di suonare. Con rabbia, sofferenza, umiliazione. Ed ho fatto l’agente di commercio, giusto qualcosa che non centrasse nulla con la musica. Dopo pochi mesi dal dannato diploma, ero attorno ad un tavolo, nella Milano da bere, con un tailleur aggressivo e mille modi ruffiani cuciti addosso, una macchina come seconda casa e qualche albergo di troppo. Che poi piangessi appena scorgevo un’orchestra sul video, lo sapevo solo io.

Sarà che la vita son tasselli incongrui, che alla fine combaceranno tutti perfettamente. E’ stato come lasciare un amore, per poi impazzire senza di lui, e chiedergli in ginocchio di riprenderti con se’. Per fortuna, i flauti non portano rancore.

Infatti poi tutto ha preso colore, e il mondo là fuori è ben più truce di un esamino davanti a qualche insegnante frustrato di conservatorio. E riesco addirittura a raccontarlo, in questo bizzarro outing, forse per scacciarmelo di dosso una volta per tutte.

Ecco, domani.

Domani è solo un piccolo obiettivo, un traguardo obbligato in cui non vale l’arrivo ma il percorso.  E il voto, speriamo sia buono, altrimenti pazienza, sono già brava per esser arrivata fin qui, altro che mediocre.

Ormai lo studio è arrivato a saturazione, bisogna buttar fuori questo programma ed andare avanti, da queste nuove basi.

(oddio, parlo da maestra anche quando son l’allieva)

Insomma, ho un’ansia addosso potente. Camminando da sola, senza quel sant’uomo  vicino stavolta, a raccogliere i cocci. Anzi, peggio, con i miei vecchi presi con qualche acciacco (diciamo così) e con un bimbo che ha la precedenza sul resto del mondo. Insomma, se andrà male saranno cavoli miei, senza il diritto di piangerne. Anche perchè, insomma, sono “grande” adesso. Già.

Non andrà male.

Avrò un feroce mal di stomaco come al solito, il primo pezzo non sentirò le dita, non controllerò niente, sarò in palla. Poi mi distrarrò per qualcosa, qualsiasi cosa, e farò meglio, molto meglio.
Come quella volta con Prokofiev, poco prima dell’assolo dell’uccellino di Pierino e il lupo, Giorgio a chiedermi sottovoce, Anna spostami la ruota del timpano, dietro di te, eh, cosa, oh, tocca a me. E le dita vanno da sole, e io incredula. E me lo ricordo sempre. Dovrei suonare sempre con un timpanista dietro la schiena.

Okay. Torno a studiare, pattern scorrevoli. E scusate l’outing, ma ogni tanto c’è bisogno.

Chiudo gli occhi, e mi siedo sulla sponda del fiume.

L’argine verde, l’acqua lenta che scivola verso il mare, i colori e i rumori evocati da un ipod che mi isola da quest’ufficio intorno. No, non pensare all’ufficio, pensa al fiume. Ascolta quanto sia scomodo sedersi sopra l’erba, con le mani a tenerti su, a premere sul terreno, a segnare piccole rughe sui palmi. E fa caldo, un sole forte, che faccio fatica a tener gli occhi aperti, anche dietro gli occhiali da sole.

Se mi concentro, se mi concentro davvero, ce la faccio a volar via. Riesco a cancellare l’aria pesante e polemica, e la frustrazione che avvolge queste stanze.

Me ne volo fuori. E appoggio il lavoro sull’erba, col vento che mi fa volar i fogli, e il monitor del computer poco chiaro per il riflesso del sole.

E guardo il fiume, che mi guarda dalla sua lentezza abituale come fossi una sciocca indemoniata. Cosa diamine corri a fare, cosa.

Niente fibre per oggi.

Niente fibre per oggi.

Una fetta d’anguria, due pesche, sei gocce d’oro. Uova all’occhio, carciofini sott’olio, dodici noci. 

Guardando uno zapping selvaggio, Giulia si ferma sull’innovativa proposta pubblicitaria di giornoenotte, spettacoloso prodotto mangiaciccia. Idiota, ma attira, come tutte le illusioni di cui ci si vergogna del desiderio di provarle, su di se’.

Mi esce senza pensarci, forse ubriaca di noci e carciofini. “Giuly, e te, buttar giù qualche chilo?”.

La guardo con l’ultimo briciolo d’occhio dietro le ciglia mascarate di fresco. Si offende e mi manda affanculo, vedrai, ma cazzo ne sai te mi dirà, pensa a far dimagrire il cane invece che me…

“E’ che non mi frega niente”. 

(Silenzio)

“Quando stavo con Giulio mi preoccupavo tanto di esser sempre in forma, ben curata, attraente. Ero talmente intenta ad essere perfetta per lui, che non mi accorgevo di quanto lui divenisse imperfetto ai miei occhi”.

Uh, il povero Giulio. Lasciato la sera di san valentino, con davanti due orecchini con smeraldo, e due frasi: lo smeraldo mi fa schifo. E te, pure te. 
Ma mica con polemica. Lo ha lasciato così, come scusandosi perchè aveva un altro impegno per quella sua vita. Sorridendo, diceva sempre lui. Spiazzato, il povero Giulio, nemmeno una scenata, un litigio, niente. 

“Poi sai, Carlotta e Claudio mi hanno fatta diventare la casetta dei miei bambini, non più una donna qualsiasi. Un regno di coccole, di abbracci, di tenerezza. La tenerezza mica sta in un bacchetto di legno, no?”

Nemmeno in due orecchini di smeraldo, pensavo io.

“Sono i miei due angeli, senza di loro sarei….inutile”.

Minchia, son loro due, inutili. Due odiosi marmocchi rompimaroni. Che se la comandano a loro piacimento, da sempre. Ma se glielo dicessi, lei mi insulterebbe col solito “cazzo ne sai, che non hai figli”, io le direi “però ho un cane”, ribatterebbe “un cane è una bestia, non è la stessa cosa”, e ‘vanti due ore.

“Poi mica sto male fisicamente. E nemmeno gli uomini si fan problemi, che proprio non ne vedo che mi respingono perchè ho qualche chilo in più”.

Già. E’ intelligente Giulia, un viso luminoso, se non fosse per le due chiaviche come prole, sarebbe la donna ideale. Insomma, se di notte esco a portar giù il cane, un uomo non mi scappa dal letto. Ma se mi saltassero nel letto la mattina due figli di cui, vagamente, avevo annunciato l’esistenza, quello si traveste da geraneo e mi si mimetizza sul balcone in attesa di una folata di vento.

“Poi lo sai. Ho altre priorità. I miei figli. Sono un distributore di coccole, un fazzoletto di seta per le loro lacrime, una coperta calda a scaldargli i sogni, un vento fresco a suggerire nuovi giochi, una nuvola a portarli per nuove mirabolanti avventure. E con loro viaggio, in mondi che non puoi immaginare, disegnati con pastelli di impossibile, e tutto si forma, tutto si crea, e il cuore, il cuore batte come mai per nessun altro. Li amo. Li amo come un prato ama i suoi fiori, il mare le sue conchiglie, il bosco i mille aghi di pino intorno. E so amare solo loro, così, senza averne per altro, per altri. Ma amo anche me, ecco, per ciò che posso dar loro. La felicità di amarli, per tutta la vita”.

“Claudio me lo dice, sono la sua regina, quando mi sveglia al mattino. Il suo pilota di formula uno, quando lo porto a scuola di corsa nel traffico, il suo cavaliere indomito quando affronto la coda al supermercato, il suo einstein privato quando qualcosa ha bisogno di risposta ai suoi perchè. Per Carlotta sono la sua principessa, i miei capelli son suoi, i miei gesti di donna son già i suoi, i miei sentimenti sono i suoi, e vigilo in silenzio vedendola crescere, aprire le ali di farfalla malferma appena uscita dal vestito di bruco”.

I suoi occhi sono altrove, le mani gesticolano. Dice scemenze, metafore esagerate, e meravigliose.

E io penso, anch’io adoro la mia vita, il mio compagno di avventure ha due orecchie a punta e una coda curva, e mi ama e mi segue con una dedizione che nessun uomo, già, nessuno mi ha dedicato. Se glielo dicessi, Giulia mi manderebbe all’inferno. Litigheremmo sul fatto che Gil puzza ignobilmente, che io lo tratto come fosse un umano e che ho dei problemi. Io ho sempre, dei problemi, per Giulia. E io le direi, ma che ne sai te, e lei direbbe che ne sai te che non hai figli, e non se ne verrebbe più fuori.

“Le mamme finiscono i gelati che i bimbi non mangiano, preparano cibi sostanziosi per tutti, e non hanno tempo per mettersi a dieta, che lo sai che non è di buon esempio per le adolescenti? Metti che mi diventa anoressica… Io poi, io sto bene così. Io…. io sono felice”.

Felice. 

(Silenzio)

“Secondo te, sarei forse più felice se fossi magra? Cosa mi cambierebbe? Potrei mettere un vestito di una taglia in meno, quando costa uguale a una taglia in più. Potrei ancheggiare davanti ai colleghi. E riempire il carrello del super con produttini a calorie zero, insipide e piene di ste cazzo di fibre. Mo’ son le fibre la cosa più importante della vita, come se fosse l’unica azione degna di gioia quella di andare a ca….”

(silenzio)

Io sono felice. Me lo dice, me lo ripete. Io penso alle noci. Che fanno effetti strani stasera, alla mia visione del mondo.

“Ma insomma, pure te, non hai figli ma hai un cane”.

“Ma Giulia, non è la stessa cosa!”

“Ovvio che non è la stessa cosa, diamine!”

“Appunto”.

Cambio canale. Taglio un’altra fetta d’anguria. E pesche, carciofini, noci. Da capo.

adesso

adesso

I piedi nudi, a penzoloni sul cornicione.
I capelli sciolti, in ciocche ondulate, memori dei boccoli di bambina. Il viso a guardar giù, le rughe a specchiarsi nell’acqua, giù in fondo, che le onde scioglievano ed intricavano nella sua immagine riflessa. E le braccia, due bacchetti troppo magri e dinocolati , a spuntare sul vestitino a fiori, troppo moderno per la sua età.

 Pensionata. Se lo ripeteva, pensionata

La sua vita, un soffio, quarant’anni volati via. Gli ultimi venti, tutti uguali, scanditi dalla stessa sveglia, l’acqua alle camelie, il tragitto in bicicletta, il suono della timbratrice al passaggio del suo badge, dove una sua foto da educanda proprio non le apparteneva. Il suo lavoro quotidiano, l’esser qualcuno in un ufficio in cui tutti, sconosciuti, avevano il suo numero appuntato in agenda, per chiamarla come unica risorsa per un determinato problema. Una rotellina indispensabile, pensava. Ma sostituibile, con un modello nuovo.

La sua sostituta, una ragazzetta laureata in scienze del cavolo lesso, piena di nozioni e praticità zero, tutta intenta a schematizzare su fogli excel dati, numeri, indicazioni. Giulia invece, aveva tutto a mente. Sapeva chi, cosa, dove, come, dettagli inclusi, tutto stampato in una memoria baldanzosa, presuntuosa, ineccepibile.  La ragazzetta non sa. Andrà a scatafascio quell’ufficio, senza di lei, eh si.

 Le gambe a penzoloni.

Due rami ossuti che finivano in un piede magro, rigato di spesse vene in rilievo, con uno smalto rosa pastello, un po’ rovinato sui bordi. Le muoveva, avanti e indietro, come se avesse sei anni. Poi insieme, come fosse in altalena. E vai su, e vai giù. Spingi, e vai più su, poi scendi, le ripieghi, e di nuovo stese, avanti.

E poi di nuovo, immobili.

Non sono in vacanza, sono in pensione. Sono… vecchia. Rottamata.

 Per mesi se ne parlava, di cosa avrebbe fatto. Alla festa nel suo ultimo giorno, le avevano regalato un cavalletto con pennelli e acrilici, finalmente avrebbe avuto il tempo per dipingere. Non vedeva l’ora. Suo figlio con la nuora, le avevan preso un violino, bellissimo (per me l’ha preso alla feltrinelli, per 50 euro, ma che vuoi farci, già tanto che ci ha pensato..), finalmente poteva suonare. Aveva tempo. Un sacco di tempo. Per fare tutte quelle cose che non poteva fare. In crisi? Ma figurati, non vedo l’ora. Non vedo. L’ora.

 Aveva dipinto. Suonato. Bagnato le camelie. In bici per la sua città, al mercato, a prender la frutta più buona, invece che prendere quella del super (quand’ero in ufficio mica potevo).

E il cinema, alle prime ore del pomeriggio del martedì, 4 euro, un affarone.
Poi, passare da pensionata in ufficio. I saluti, le feste dei colleghi, i “capperi se ci manchi, qui è un marasma con la ragazzetta”, eh si. Le prime volte.
Poi arrivava, ah ciao, si scusa ma abbiamo una riunione, e girare per i corridoi sentendosi di troppo, trapassata, pensionata. Una disperata in cerca della sua passata identità. La dottoressa Giulia F. , diventata “una pensionata”. Se l’avessero investita, sul giornale non sarebbe apparso “dirigente bla bla..”,  ma “pensionata”. O peggio, anziana.

 A penzoloni. Trasparente, ben più di quell’acqua, sotto di lei. L’acqua della sua laguna, sotto il cornicione, sotto la sua altalena immobile.

 

E adesso. E adesso?

via

via

Ti lascio, amica mia.

Le tue pareti, da cui ho tolto vecchia carta da parati, con in armadio il mio vestito da sposa. Il caminetto, su cui mi son scaldata, abbracciata ad un illusorio amore. Il divano, da dove tessevo maglioncini con un bimbo nella pancia. La cucina, dentro cui preparavo un pranzo per due, poi per tre, poi per due. Il salone, con le cene degli amici, le feste di compleanno con i bimbi, le prove con il gruppo. Un angolo della mia camera, dove in silenzio piangevo un matrimonio finito. E una cameretta con paperino disegnato, la pace dei sogni di neonato attorno, i giochi in giro, il freddo di una caldaia che non potevo permettermi di cambiare. 

Ti ho amata, come culla di un sogno breve e falso. Quando mi son liberata dei fardelli, abbiam davvero vissuto, io e te. Ti ho cullata, accarezzata, amata. Nonostante i nemici, giusto fuori dalla porta, lì mi sentivo al sicuro. 

L’ultima notte che ho dormito  nelle tue stanze, era il giorno del redentore, di qualche anno fa. I fuochi di Venezia, un bambino felice, e il ritorno da te, assieme ad un altro fardello che però, come il resto, ora ho scordato.

Ti sono grata, per avermi regalato un sogno di “normalità”. E’ che non era destino, che io facessi la moglie. Non ci son portata, si vede. 

Mi mancherài, forse. Come mi mancherà lasciare un trancio di me al nemico, ma è per il mio bene, sai. 

Ora ho una casina piccola piccola, ma coccola. Io e il mio cucciolo stiamo lì, abbracciati sul divano, con le nostre cose intorno, dopo una giornata di lieve routine attorno a questo nido. 

Non è te. Non è la mia casa dei sogni, che ho amato, che ho protetto, dove ho aspettato che qualcosa si risolvesse, dove ho cacciato ciò che prima pensavo di rivolere. Dove ho pianto tutte le lacrime della mia vita. Un paio, lo sai, le ho versate anche per te, l’ultima volta, ‘che non doveva andare così, la mia bella famiglia in frantumi. Diec’anni, ma per me è passato un sol giorno. 

Accarezzo i tuoi muri, piano. E ti lascio andare.

avanti (un altro po’)

avanti (un altro po’)

“Sai da quanto tempo non faccio l’amore?”

…guardo la mia amica. Sbirciandola per storto cerco di decifrare se è un’ennesima battuta in questa nostra giornata di shopping, o se fa sul serio. Perché il passaggio tra un’essesima cazzata e il sarcasmo sulle ipotesi di vita sessuale delle cassiere di Zara, sembra obbligato.

“Sai da quanto tempo non faccio l’amore?”

Che diamine. La mia amica è una dannata rubacuori, per dirla come nei romanzi di Liala. O un po’ zoccola, si direbbe ora. E’ che è bella, anche la mattina presto del lunedì, e nelle sere estive, abbronzata e vestita di bianco, cammina tra la gente come se avesse addosso un occhio di bue, ad illuminarla tra tutti. Si nota sempre, a mia amica. Quando entra in un locale, quando la presenti a degli amici, ti travolge il suo bel viso, i suoi modi, e la sua dissacrante simpatia.
No, non può far sul serio.

“Otto anni. Cazzo. Otto anni. Aranciata, grazie, e per te?”

“..Eh?”

Eh per l’aranciata. Eh per gli otto anni.

“Spritz al Cynar. Otto anni? Ma cazzo dici, se hai mollato l’ultimo due settimane fa”. Ed evito, davanti alla cameriera, di ripeterle parte degli spassosi aneddoti delle prove di trasmissione tantrica attivate in quell’ultimo contesto.

Sospira.  Lei che sospira. Beve aranciata in fondo, e già questo dovrebbe preoccuparmi. Sindrome premestruale?

“Il sesso è uno sport. Un’esigenza fisica e psichica, una sete di pelle, un bisogno di sapere che esisti. L’amore, è un’altra cosa. Una cosa che ho dimenticato”.

 

La guardo, mi ammutolisco. Mi accorgo di aver creduto che lei di tutti si innamorasse, per tutti perdesse la testa, pensiero idiota risultato di troppe soap improbabili che mi sorbisco mentre attendo mio marito per pranzo. Quel marito che manco si accorge se cambio colore dei capelli, che si lamenta sempre, che gira per casa in mutande e canotta da maggio a ottobre, ideale per spegnere anche la più fremente libido. Sarà mica il mio, l’amore.

Glielo chiedo.

“Giulia, sarà mica il mio, l’amore (dico anche “vero”, ma sottovoce)”

“Non lo so. Non riesco a far confronti. Dico solo…. Io non faccio più l’amore. Io faccio una gara. Incontri un uomo, ci esci a cena, parli di qualche cazzata (che non ascolterà), ascolti le sue chiacchiere (che per fortuna dimenticherai), poi lui paga il conto, ci fai due passi, poi ti bacia con ardore, solitamente molto più ardore di quello che dimostrerà a letto. Decidi se a casa sua o tua, la prima sera o le seguenti, e lo frequenti. Ti presenta i suoi amici, tu i tuoi, ti mandi qualche sms e qualche mail. Dopo un po’, ti sembra che siate insieme, sebbene si tratti solo di condividere il letto qualche volta a settimana, passarsi “a prendere” sottocasa, ordinarsi il caffè. E a letto, dopo il primo periodo di dimostrazione del vicendevole repertorio, diperse’ anche faccenda stimolante, si inizia una routine che rende il tutto esattamente come gli altri. Io,…. io mi giro dall’altra parte, dopo. Questo, tesoro mio, non è far l’amore”.

La ascolto, ed insisto a non voler credere che la sua vita trasgressiva, che da anni tanto le invidio, sia così…triste. Mio marito, quello in mutande e canotta, mi abbraccia sempre di notte. Anche se fa caldo, se ho l’influenza, o se gli ho rigato la macchina parcheggiando.

“A vent’anni mi innamoravo, passavo mesi passeggiando a due metri da terra. Ero in palla completa, pensando solo al mio “lui”.Mi prendeva per mano, mi scriveva biglietti teneri la mattina, mi preparava la cassetta con le canzoni romantiche prese dalla radio, coi tagli improvvisi della pubblicità. Ore al telefono di tènere fregnacce,  i mazzi rose a gambo corto, che costan meno, e quando veniva a prendere a scuola, mi aggrappavo a lui sul Garelli scassato che mi sembrava il principe azzurro sul cavallo bianco, o in quel calesse che era la sua prima utilitaria, senza sedili reclinabili.”

Arrossisco. Mi tornano in mente tante cose, ascoltandola.

 

“ E l’amore. L’amore della notte, ti rimaneva addosso tutto il giorno. Ti sentivi addosso le sue carezze, avevi i flash dei sussurri, delle emozioni, delle parole dell’amore, con la sete dei suoi baci ancora troppo forte. Ed ogni musica, ogni canzone, parlava di quella notte”.

 

“Ed ora, ora amica mia, che mi è successo? Perché tanta solitudine? Perché incontro estranei, perché debbo “sforzarmi” di uscire con un uomo, senza basarmi su istinti d’amore che non posseggo più, per basarmi solo sul numero dei miei ormoni da calmare? C’è forse un’età, dopo cui l’amore è ormai troppo razionale, ed impossibile da provare?”.

 

Giulia si ferma. Gioca con l’ultimo goccio di aranciata, facendola girare come in una lenta giostra, dentro il bicchiere. Le bollicine che salgono, come i suoi pensieri che hanno inondato l’aria intorno, usciti da un’anima che finora, ammetto, credevo vuota, goliardica, e felice.

Non so che dirle.

Rimaniamo in silenzio, lei fissando il suo bicchiere, e io incapace di capirla.

 

“Giulia. Non è ancora il momento giusto, poi gli uomini, ah gli uomini, per carità, sono una rogna. Mica ti vorrai prender per casa anche te un uomo mutanda e canotta?… Quando sarai pronta, quando non te l’aspetti, ti innamorerai e mi annoierò un sacco, senza i tuoi racconti da single integerrima….”

 

Lei sorride, paga per due e mi ributta tra le vetrine.

Non crede ad una mia parola, Giulia, e non ci credo nemmeno io. Ma va bene lo stesso. Serve per andare avanti. Un altro po’.