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Il treno schizza indietro stazioni, un tutto continuo di cose che scivolano in avanzamento veloce.

Solo mezz’ora fa infilava gli orecchini guardandolo mentre ancora dormiva, ancora una volta andava via prima, scivolando su strade o rotaie, per tornare alla sua vita. Un refrain continuo, il non aver spazio per coltivare uno straccio di sentimenti. 

Un barista inopportuno le aveva tessuto le proprietà gustose di una serie bizzarra di brioche, insistendo per farle scegliere anche tra sei tipi zucchero per il caffè. Io non scelgo, io prendo quel che capita, e lascio ciò che va.

“Ti lascio al tuo amore”, le aveva scritto, col solito cattivo sarcasmo, mentre arrivava a Milano, mentre rimbambita da sentimenti che non sapeva decifrare, e pensieri che non voleva sbrigliare, si immergeva nella metro in mezzo a facce da blogger affaccendati. Non è il momento per prender decisioni, si ripeteva, controllando di non aver lasciato per errore acceso, anche in stand by, il cuore.

Siamo soli, e semmai ci si fa compagnia. Oppure, ci sono cose più importanti. Eppoi, non ho tempo. Ah si, non ho tempo. 

Impacchettò un brivido di tristezza, come un cagnolino perso tra la folla, e riprese le redini della giornata, indossando il suo umore migliore. Una musica meravigliosa l’avrebbe abbracciata tutta la notte.

non voltarti

non voltarti

Non guardarti più indietro, Giulia. 

Non ascoltarlo, non tornare sulle decisioni, non tornare indietro.

Seduta davanti ad uno scampolo di mare, una musica troppo bella attorno, ad accarezzare l’anima tormentata dalle tue violenze, dal non saperti perdonare, ecco, ora fai largo dei dolori, cancella, resetta il tuo passato, il tuo presente.

Giochi con la sabbia, e pensi ad una notte, sei entrata in acqua coi vestiti addosso, in un atto di pazzia, di disperazione, di forzata emozione. Quelle stramaledette emozioni, che se troppo labili, troppo deboli, troppo inutili, dovevi amplificarle. Troppo sazia di emozioni, Giulia.

Il suo non era amare, era stracciarsi il cuore in mille pezzi. La sua monotonia andava uccisa con qualcosa, qualcosa di cercato ovunque, un motivo per provare qualcosa di forte, di negativo, di straziante. In mezzo alla nuvola più dolce, avrebbe trovato il fiele, acre e distruttivo.

Giulia, perchè non vuoi esser felice? Che ti manca, che continui a cercare?
Non riesce, Giulia, a fidarsi. Giulia scava, e trova. E più scava, più trova, più perde. Perde se’ stessa, perde l’amore, la fiducia. Perde il sonno, nella mente sempre dubbi, sospetti, rabbia, orgoglio.

Seduta davanti ad uno scampolo di mare, quella musica bussa più forte, chiedendole di accettarla, di sopportare una carezza fatta per il suo bene.

Un passo dopo l’altro, Giulia, con calma. Non guardarti indietro, un respiro, e tutto passa.

L’elemosina

L’elemosina

La “mia” parrocchia è quella dei miei, della mia infanzia, dove mio figlio fa’ catechismo, dove mio padre fa’ l’accolito. Insomma, a un po’ da casa mia, in un altro quartiere.

Una chiesa moderna, con un parroco gajardo, che è venuto fin a Oderzo a sposarmi (in moto, un Guzzi spettacolare), mi ha poi sostenuta durante la turbolenta separazione (dandomi ragione, te pensa), senza considerarmi “immonda” e facendomi leggere le letture alla messa d’anniversario di matrimonio dei miei, come dei miei amici. Io, che proprio praticante non sono, forse grazie a questo obsoleto parroco riesco a riappacificarmi con Dio, ogni tanto.

A pasqua, Gabry ha insistito ch’io facessi la comunione. Quando ormai la fila era finita, il Don mi ha aspettato fermo davanti all’altare. Ammetto, mi son commossa, sembrava proprio che…. vabbè.

Stamane ho qui una DIA, per alcuni lavori alle vetrate, devo preparare l’integrazione di pagamento, e imporre alla “mia” parrocchia di pagare entro trenta giorni la parte di diritti non pagati. Una routine, capita spesso da quando han cambiato gli oneri.
Ma penso al mio nano, che ha messo un euro per la candelina, e 5 nelle offerte. E penso che questi andranno al comune, e di seguito, nel mio stipendio.

Ci pensavo, ecco, tutto torna. Alla fine.
Tutto qua.

Tragedia

Tragedia

Oggi è successa una tragedia.

Lo si sapeva, era stato annunciato da giorni.

Oggi è successo.

Una tragedia diffusa in tempo reale dai socianetvuorc. Subito, subitissimo, tutto il mondo solidale a discutere, con terrore, di quest’improvvisa, immane tragedia.

E’ cambiata la home di Friendfeed.

Pensate, fino a mezzora fa si discuteva ancora di (mmmm, cos’era?) ah si, il terremoto in Abruzzo. Anzi no, si discuteva se si doveva donare il sangue anche se non ce n’era più bisogno.

Mo’ basta, dicevamo, allora, la home di Friendfeed: vi piace? Vi trovate meglio o preferivate quella di prima del terremoto (del template)?

 

(Se preferite apriamo un gruppo su facebook, assieme a quello su “son solidale con l’aBBruzzo)

cio’ che di buono e’ rimasto

cio’ che di buono e’ rimasto

Ogni tanto ci si guarda indietro, giusto o sbagliato che sia.
Pian piano tutto si sfoca, non distingui piu’ i lineamenti del passato.
Pero’ io le tue carezze le sento addosso, come sempre.
Senza se, senza ma, tengo quel che di buono ci e’ rimasto, e mi ci gongolo sopra vedendone solo i colori belli.
E spengo, che ormai le batterie son finite, il nastro che contiene le accuse, le gelosie, le vendette, le … cazzate. Tengo le cose belle, le cose magiche, quelle su cui non so trovar dubbi.
Per giorni dimentico, poi torni, a caso, nelle mie cose. E sorrido, dopo anni ora so sorriderne. Di quell’amore per cui non potro’ mai ringraziarti abbastanza.
Forse un giorno, pensa un po’, ti chiedero’ scusa.
Ciò che tu sei

Ciò che tu sei

Tacchi che suonano in una calle addormentata, bagnata un po’ dall’acqua alta. Sguazzo nei miei pensieri, anche a notte fonda, in apnea prolungata sotto il livello della coscienza. Rielaboro, organizzo, lavoro. In continuazione, le mie rotelle girano, trasportano, incasellano, e ancor più al ritmo dei miei passi, sempre questi tacchi, a svegliare la polvere della fondamenta, disturbandomi la laguna. Pure la laguna, adesso, dorme. E io invece ragiono, ragiono, ragiono….

Ho fatto tardi, mi ha aspettato sveglio. Scarico borsa e flauto sulla sedia, ancora nella gig dei miei discorsi, fino a fermarmi, rallentare. Che pace c’è qui. La musica, l’aria, le poche cose nel disordine di chi non abita troppo spesso. Che pace. La respiro, la godo.

E mi addormento nell’abbraccio, un sonno senza sogni, senza cose in sospeso da risolvere.  Tutto qui.

Io lavoro, e.

Io lavoro, e.

lago-carezza

Prese il caffè caldo tra le mani, nuovamente al lavoro, in un lunedì solito. Le azioni d’abitudine, le sue cose sulla scrivania, e un insolito silenzio, tale da gettarla dentro di se’, immersa nelle sue negazioni, contraddizioni, sentimenti in default, e parole semplici da dire, giustificazioni ovvie per tagliar corto.

Sbigottita, si ritrovò tra le mani un pensiero vanamente soffocato. E si accorse che era intatto, lucido, pulito, confermato da quelle sue azioni, persone, momenti nuovi che stava vivendo, forzatamente lontani, diversi, opposti. E più si allontanava, e più si accorgeva che tutt’intorno c’era sempre e solo quello. A… a prescindere.

D’un tratto, si ricordo pure di una riflessione, fugace, del giorno prima. Nonostante si fosse sforzata stavolta, la fiducia riposta in quell’uomo era stata calpestata, ma sorpresa, non le fece male. Solo una ventata di fastidio, e appunto, la riflessione, di non riuscire a scrivere una storia nuova, per se’, senza ricalcare le stesse cose di un passato troppo uguale.

Girava il caffè muovendo lentamente la tazza, nemmeno fosse un buon vino rosso, e guardò le onde scure che lasciavano sui bordi, scendendo e risalendo appena ritornava l’onda. Assaggiò, quell’aroma sempre uguale, preso d’abitudine ogni giorno.

Si disse, potrei cambiare. Rompere. E’ tutto troppo uguale per darmi qualcosa, ormai non mi fa più effetto, è… inutile.
Poteva cambiare caffè, uscire a prenderlo al bar, provare a cercare un caffè finalmente… buono. E invece, decise di non berne più.

Avrò più tempo per me, si disse. Come se la caffeina, e l’amore, fossero la stessa droga, da cui provare a liberarsi.

ah yeah

ah yeah

Sveglia. Gabry vestiti, trucco, merenda, buonopasto, mac e flauto, auto, semaforo, scuola, baciomiraccomando, traffico, ufficio, macchinetta, lavoro, telefono, pc, problemi, networkin’, hodimenticatoilpranzo, tangenziale, parcheggio, scuola, allieve, diaframma, non stringere, di nuovo in macchina, triestina, buio, casa, gabry, cena, lavastoviglie, vai a letto, buona notte, sudoku, le palpebre crollano, click.

E invece, mi sveglio.

Il piumone mi si aggroviglia addosso, il buio attorno fa casino, mi sveglia, intonso dei miei pensieri, stasera non se ne vogliono andare. Come farfalle macabre mi girano attorno, si appoggiano alla mia voglia di tranquillità, si infiltrano sotto pelle, e bruciano. Piccoli spilli, continui, le cosedaricordare, le cosedimenticate, lecosedafarechesenonlefaisonguai.

Accendo la luce, mi tiro su. Ella apre gli occhi distratta, di base ignorandomi, solo indispettita dal cambio di routine. E penso. Calcolo, quando mi son fermata l’ultima volta?…due settimane fa. Non è bastato? No, a quanto pare no.

Respiro, penso, mi faccio forte, ricalcolo. Spostiamo questo qui, e quello lì, come una stanza piena di troppi mobili ingombranti, vedremo di sostituirne alcuni, rendiamo tutto più funzionale.

Vale la pena? Questa nonvita, correrecorrere, non aver tempo per se’, dipendere dal planning di una giornata decisa al minuto?

Dovrei fare la spesa. Andare a farmi quegli esami, leggere un libro, fare una corsa in bici, pulire casa a fondo, comprarmi un maglione nuovo. Uscire a cena con Nadia, colorare i disegni con Gabry, andare al mare, sellare Secret e farmi l’argine al tramonto.

Spengo la luce. Devo dormire, questo è l’orario in cui si dorme. Domani poi non reggo, se non dormo. Devo pensare, pensare a qualcosa. Quel qualcosa che vale la pena. Vale la pena per tutto questo.

Ah yeah. Ecco. Quando acchiappavo note, martedì, nella mia lezione. Quella lezione per cui sto stravolgendo e sacrificando tutto. Ah yeah, ha detto. E ignoro cosa io abbia fatto, solo (ostinatamente) quello che passa direttamente, dalla pancia alle dita, alle labbra. Uscendo con quei ricami di note che non so comandare, perchè comandano loro.  Ah yeah. Un commento, che gli è uscito così, a dirmi che è la strada giusta. Tardi o presto, tutto si evolve, io mi evolvo, io vado avanti. Io, dico la mia.

Mi addormento, abbracciando il cuscino, gongolandomi nelle mie certezze. Vale la pena, ah si, se vale la pena.

cambio

cambio

Ci penso. Ah se ci penso.

Come una liberazione, ammetto. Come dover decidere di cambiare macchina, sebbene non ci si sia mai lamentati prima. Come cambiar lavoro, e non sentire di punto in bianco alcun legame con gli storici colleghi. Come cambiare città, casa, famiglia. Dimenticandosi quello che c’era prima.

L’amata routine, quella che fa sempre compagnia. Tutto ormai è superato, come immagini di paesaggi che schizzano dietro, quando la macchina è lanciata a mille all’ora.

Io, sono lanciata a mille all’ora.

Loro, loro mi mancano. Mi mancano, e mi mancheranno. Ma ormai ho preso il via.