Posso davvero non pagare la Siae? Ed è giusto non farlo?

Posso davvero non pagare la Siae? Ed è giusto non farlo?

Dopo la mia lettera aperta al Ministro, e relative risposte del Ministro stesso e del Presidente della Siae Gino Paoli, molti mi considerano un punto di riferimento per una sorta di guerra dei musicisti contro la Siae.
Chiariamoci: io vado proprio nella direzione opposta. Io non voglio abolirla, voglio semmai farla funzionare.

Mi hanno in molti tirata in causa dopo un altro articolo virale sulla questione, ma parliamo di cose molto diverse.
La legge sul diritto d’autore è del lontano 1941, chiunque abbia sottoscritto un qualsiasi contratto riguardante i propri diritti d’autore sa bene che si porta dietro una serie di clausole bizzarre (tipo l’obbligo di stampa di 300 copie, che uno pensa “mi ristampano i dischi?” ma invece si riferisce ai libricini con musica e testi che si usavan negli anni 50) ed è decisamente obsoleto, oggi.

Distinguiamo bene: se uno vuole esser convinto di registrare a proprio nome un brano, non serve la Siae, basta la storica ricevuta di ritorno per una busta coi propri spartiti, sigillata, autoinviata. Oppure ci si appoggia a servizi esterni, basta un giro sul web e ce ne sono moltissimi. Ma la questione diritto d’autore è un’altra cosa.

La Siae paga i diritti d’autore. Li paga poco e male? Questo è un altro discorso.
Uno registra all’estero i propri brani (BMI, SACEM, GEMA, ecc)? Se i brani girano in Italia, per radio o per propri live, passa comunque tutto attraverso la Siae, che ha mandato dalle altre (e quindi la quantità di diritti incamerati sono i medesimi, in quanto è sempre Siae a controllare in Italia), che però si tratterrà una propria quota. Quindi si risparmia in  quota annuale (all’estero sono molto più economici) ma si guadagna in diritti molto molto meno.

Uno NON registra i propri brani? E’ macchinoso, per chi non è avvezzo con la burocrazia, deve comunque versare una cifra per il permesso Siae che poi verrà restituita, ma è esente dal pagamento Siae. Per i propri brani però. Se solo ci mette un arrangiamento di un brano di altri, o esegue un pezzo di Morricone, paga.
E’ sbagliato? No. Io, signor Morricone, scrivo un brano e se tu lo suoni fuori mi paghi i diritti. Esattamente come se mi suoni un brano della flauta, o smerci una sua foto in bikini per pubblicizzare un aspirapolvere, la paghi. E’ corretto.
Quindi mettiamo l’ipotesi che non registriamo nulla in Siae quindi non la paghiamo. Bene. Poniamo il caso che (succede, succede) qualcuno mette un nostro brano come sigla di un cartone animato o di una pubblicità (non parlo di ABUSO, ma di semplice USO). Che si fa?
Ci siamo mandati la busta a casa, bene, possiamo rivalerci con avvocato su chi usa la nostra musica e verificare i termini per un compenso. Quanto ci costa un avvocato?……. Okay, lasciamo stare, ascoltiamoci la sigla ogni pomeriggio e stiamo felici così.

Se invece siamo iscritti alla Siae, segnaliamo e la attiviamo in modo che (mettichesisiadistratta) recuperi i nostri diritti. Ribadisco, per l’abuso (mia musica che esce a nome di un altro) ci attacchiamo al tram, ma per meri diritti loro lo fanno, ne ho avuto più volte conferme.

Ma veniamo ancora al discorso Musica originale non registrata in Siae. Adesso si parla che non serve più autorizzazione e borderò, esattamente come mesi fa si parlava dei bollini sui CD non più obbligatori, come della legge (ma era solo una proposta, sospesa) della musica dal vivo liberalizzata come in Inghilterra….. Raga, è il web. Al primo controllo Siae cosa facciamo, gli mostriamo uno screenshot di un blog?… Informiamoci bene.

La vera “battaglia” non è “contro” qualcosa, è a mio parere abbastanza inutile straparlare e bestemmiare sulla Siae. E’ palese che non funziona, che ha poteri fortissimi che vogliono mantenere le cose così come sono. Ma i tempi cambiano. Noialtri dobbiamo farle cambiare.

La questione è: non ci interessa il diritto d’autore? Okay. Ma la fetta di programmi musicali più grossa è costituita da musiche di altri autori, italiani ed esteri, che il diritto d’autore lo vogliono. Quindi si paga lo stesso.

Insisto: la Siae va riveduta e corretta, anche se per piccoli passi, oppure va liberalizzato il mercato, con altre società che facciano la medesima cosa ma creando concorrenza, e trasparenza vera.

Chi lo può fare?…. la politica. Porco mondo.
Continuiamo a far rumore, è da lì che devono cambiar le cose.

L’educazione alla buona musica (come provare a cambiare il mondo)

L’educazione alla buona musica (come provare a cambiare il mondo)

Gabry Drummers sepia

 

Sto raccogliendo idee e spunti per proseguire il discorso iniziato (con una eco mica male) nel precedente post, sono stata rimpinzata di commenti e ottime ipotesi… Bello. Chissà se in parlamento funziona così.

(pausa attonita di riflessione)

Ehm. Dicevo.

Nei tanti discorsi ho colto tanto, tantissimo sconforto. Colleghi, amici, rassegnati, nauseati da una realtà musicale in Italia che fa venir voglia solo di fuggire all’estero. Certo, mica è solo la musica, è tutto il panorama etico che è crollato, un becero quotidiano fatto di scemenze, volgarità inutili, valori da dittatura. E così abbiamo ragazzine di 12 anni che si vedono grasse, giovani che non studiano ne’ lavorano, mondi che passano attraverso schermi touch, come se tutto, anche un amore sbagliato fosse possibile bannarlo, o cambiarlo con un lieve gesto d’indice nell’aria.

Volendo metterci del nostro, come possiamo cambiare le cose? Come cercare di cambiare il mondo musicale, il “pubblico” stesso, le nuove generazioni, i nuovi musicisti? Come rialzare la nostra arte, rieducando il mondo ad un livello più alto e differenziato della musica?
Ho (ormai l’avete capito) qualche idea (che vi snocciolo con la solita storia dei punti programmatici).

1. Si parla spesso delle “scuole medie coi flautini dolci”, come se ci fosse una delega totale all’educazione dell’orecchio alla scuola dell’obbligo. Ma quando mai. La musica si impara, come la parola, come la pipì sul vasino, come la forchettina e il bicchiere con due manine, da mamma e papà .
Pensateci: la quantità di musica che ascoltano i bimbi è di dubbia qualità. Spot televisivi, sigle, gingle. La caratteristica principale di questa musica è commerciale: ripetitiva, semplice, non orientata alla ricchezza di armonia o di suoni, bensì concentrata sulla memorizzazione del prodotto, sul ritmo. Musiche preparate spesso in fretta, con una tastiera, nella stanza del pubblicitario, o ritagliate da cose più complesse che perdono il significato complessivo. La musica diventa un sottofondo, l’attenzione è rivolta a parole o immagini, non ai suoni.
Poniamoci l’obiettivo di far ascoltare, solo ascoltare, la musica. Quella che a noi piace, perché no. Stimoliamo il bimbo a ballarla, a battere il tempo, a muoversi secondo il fraseggio della melodia, facendogli riconoscere i passaggi armonici (eccerto) suggerendogli che sono, semplicemente, suoni diversi. Canticchiamo le parti degli altri strumenti, le linee melodiche secondarie.

Tutto questo perché? Beh, amplieremo la sua attenzione sonora, svilupperà un’intelligenza musicale, utile nell’identificare meglio una voce o un suono nel caos. Lo agevoleremo nell’essere intonato, come nell’avere senso del ritmo, con evidenti facilitazioni nella sua vita sociale (chitarrista=donneapalate, quellocheportaidischi=sfigato=speriamoabbiajudo).
Ma soprattutto, cresceremo una generazione che non si accontenta delle melodie tutte uguali, o di un tamburo che pesta e ciccia. Cresceremo figli che ameranno un gruppo musicale per la musica, non solo per la pettinatura o i video trash.

Lo so che vorreste che io facessi esempi. Naaaa. Non ci casco. Tanto avete capito.

 

2. Come insegnanti di musica si ha, ovviamente, un ruolo privilegiato. Il Maestro è un guru. Peccato che spesso ci dimentichiamo che non dobbiamo solo insegnargli le scale e i pezzi, abbiamo/possiamo avere un ruolo straordinario nel crescere i giovani musicisti. Prima di tutto, insegnargli la storia della musica. Appassionarli con qualche aneddoto, con indicazioni precise sui brani, sia di classica che di pop. Dargli due indicazioni armoniche (basterebbe solo fargli capire i “colore” di un accordo, di una cadenza, di un giro), ragionare sulle strutture, spiegargli i particolari a prescindere dal fatto che li possano riprodurre.
Ma ocio. La chiave è una sola. L’entusiasmo. Dobbiamo trasmettere la nostra passione, la nostra cultura, a prescindere dal fatto che forse, all’inizio, un po’ si annoieranno e ci snobberanno. Capiterà che la ragazzina innamorata degli OneDirection (ok, l’ho detto) vi arriverà un giorno con un brano di Nina Simone. Dobbiamo dare l’acqua migliore ai nostri fiori, concimando con le nostre conoscenze. Più siamo noi ad averne, più le potremo trasmettere.

Non si dovrebbe mai screditare i loro gusti, semmai aver pazienza di far comprendere loro quali musiche sono “cloni” le une delle altre e quali invece possono aprirgli le orecchie, e il cuore. Dobbiamo educarli al gusto, a riconoscere la bella musica nelle caratteristiche più profonde. E magari dargli un po’ di fiducia e ascolto, analizzando con loro i brani preferiti.

Cresceremo una generazione migliore.

3. Vi capita mai di avere amici che vi fanno domande musicali? Da musicisti ci sentiamo sempre delle fighette, ce la tiriamo come una fionda e rispondiamo con altezzosità. Ecco, penso si possa migliorare il gusto del mondo proprio partendo dagli amici. Io ne ho molti che, ai miei concerti, mi dicono “mi è piaciuto tanto ..ma io di musica non capisco nulla”. Eppure io chiedo, stimolo all’analisi, mi interesso sinceramente alle loro impressioni. A volte sono strabilianti.
Parlarne, spiegare in termini semplici, accettare anche qualche uscita infelice, senza incazzarsi come una iena uscendo con bestemmie se uno confessa di apprezzare All… Albano. Spieghiamo, proponiamo un’alternativa.

Tante volte mi capita di parlare di musica con gli amici, a volte di cose complicate, da tecnici. Ne parlo loro come fossero musicisti, a volte mi dicono “oh non capisco niente ma ti ascolto lo stesso”: è un pregiudizio, quello che chi non suona non può capire. La musica è una cosa semplicissima, basta chiudere gli occhi e sgomberare la testa.

Siamo capaci tutti. Poi se impariamo ad ascoltarla, ascoltarla tutta, dalla prima nota al colpo di rullante, allora è ancora più figo.

Anche perché la Siae si paga uguale, per la musica bella e per quella brutta. Almeno proviamo a far apprezzare di più quella bella, no?

 

P.S.
Nella foto, Gabriele, un decennio fa, con la sua prima batteria (orgoglio di mamma flauta)

 

 

Lettera di un musicista al Ministro alla Cultura

Lettera di un musicista al Ministro alla Cultura

Gentile Ministro Bray,

sto seguendo il suo operato con interesse e piene speranze, sa? Mi sembra sia giunta l’ora di cacciare i mercanti (ed i predoni) dal tempio della cultura, ridando finalmente dignità alla vera ricchezza del nostro paese.
Ero così affranta ed indignata di non veder traccia di questi argomenti nei programmi politici passati, anzi, di leggere come i fondi per orchestre e festival, come le stesse istituzioni scolastiche musicali, fossero depredate senza alcun ritegno. Già, perché sa, sono una musicista, e spero ardentemente che il suo sguardo si posi presto sulla riorganizzazione seria del mio ambito, del mio mestiere.
Perché mi conceda di sottolineare che, quando qualcuno ha passato metà della sua vita in conservatorio, in orchestre, concerti, docenze di musica, questa non si chiama “passione” (e quindi senza troppi diritti), ma LAVORO.

Mi verrebbe da raccontarle la mia storia, con tinte lagnose e molta autocommiserazione, ma sarei falsa: io non voglio lamentarmi. Voglio proporre. Lo faccio io, perché non capisco perché, ma lì da voi non lo sta facendo nessuno.

Il musicista è un lavoro e dovrebbe bastare per mantenere una famiglia. Il dato di fatto è: il musicista ha quasi sempre un secondo lavoro (insegnante di musica nel miglior dei casi, ma spesso è architetto, impiegato, muratore, qualsiasi cosa), per necessità. I metodi di pagamento sono bizzarri, non ci sono indennità per malattia o disoccupazione, la “fu” Enpals è un fondo perduto, non garantisce la pensione a nessuno.
Io avrei delle idee.

  1. Ragionare su di un metodo di pagamento per le prestazioni occasionali artistiche, agile e alla portata non solo di un ente lirico, ma soprattutto del club, del baretto, della proloco, della contessa che vuol fare un concerto nella sua villa in collina. Non possiamo essere equiparati ai liberi professionisti, obbligandoci alla fatturazione… Non siamo liberi di niente, veniamo assunti per una sera, suoniamo, smontiamo e andiamo a casa… e non abbiamo mai un giro d’affari congruo, mi creda. Ci abbiamo provato in tanti. L’unica è affidarci alle cooperative che fatturano per noi  “soci lavoratori”, ma anche lì, comprenderà il caos di agibilità, prefatture, fatture, irpef, iva, per una prestazione che se arriva ai 100 euro facciamo festa. E non arriva tutte le settimane. Che poi, si immagina cosa ci risponde il baretto quando gli diciamo “a chi intesto la fattura?”….Invece: incentiviamo i concerti, abolendo il nero o altre fantasiose soluzioni: una ritenuta d’acconto con massimali più ampi, o i vaucher postali, o un nuovo metodo di “prestazione occasionale artistica”, appunto. Magari si può associare un obbligo di previdenza assicurativa personale, giusto per darci l’illusione di metter via qualcosa per la nostra pensione (che lo sappiamo bene, non avremo mai).
  2. Abolire i mille permessi per fare musica. Definire orari e decibel per tutta l’Italia, togliendo l’arbitrario onere ad ogni comune di definire tempi e modi per la musica dal vivo. Una comunicazione via mail certificata, magari. I locali sarebbero più incentivati a fare concerti dal vivo, ci sarebbe finalmente più lavoro per tutti (e più concorrenza, e migliore qualità..) e meno musicisti a far gli architetti, ingegneri, muratori, ….
  3. Metter mano alla Siae. (In sottofondo ora ci dovrebbe essere un colpo di cannone…). Comprendo bene che si tratti di una lobby di difficile concertazione… ma è ora e tempo che si chiariscano ruoli e compensi degli autori, che non possono più essere di serie A e serie B. Non mi dilungo sui costi annuali a cui gli autori son sottoposti, sulla distribuzione dei diritti fatta in base alla notorietà dell’autore (come se la popolarità fosse sinonimo di qualità o di merito), sull’affossamento degli autori di musica colta a favore di quelli da balera. Non mi insinuo nemmeno nel raccontarle come funziona, cartaceamente, sia i permessi, il pagamento dei diritti (e le cifre incredibili richieste), le modalità (sempre cartaceee, non sia mai) per registrare un brano come autore o come incidere un disco, con propri brani, pagando alla Siae i propri diritti…. Penso sia il momento di prender il toro per le corna, ridando dignità e qualità alla musica. Perché è denigrando gli autori che si svilisce la musica che poi scriveranno (e che i nostri figli ci faranno ascoltare in macchina…).
  4. Ridare dignità alla musica. Pensarla come un investimento, un bene prezioso che va cresciuto, non tenuto in vita come un moribondo. La “cattiva musica”, come i “cattivi esecutori”, esistono perché non c’è educazione alla “bella musica”: molti, troppi, non la sanno distinguere, perché la bella musica non la ascoltano mai. Quindi per loro, che un Notturno di Chopin non l’han mai incrociato per sbaglio, un pirla che si crede Mozart e suona una nenia su tre accordi è bella musica. Ed è pure rinfrancato se lo vede suonare, che ne so, in Senato (…). E per fare questo è fondamentale passare al punto successivo.
  5. Educare alla musica. Mi creda: ognuno può suonare uno strumento. Ognuno può cantare. Ma ancor più, ognuno può ascoltare. Certo, si può agire sull’insegnamento nelle scuole medie, sui programmi, sull’inserimento di altri strumenti oltre al flauto dolce (che a dirla tutta, a me è sempre piaciuto assai). Ci vorrebbero soldi, okay. Io però avrei un’altra idea. Rendiamo la musica, come le attività sportive, detraibile. Il corso di musica, le lezioni di pianoforte o di propedeutica, o il corso di chitarra e batteria, avrebbero la stessa dignità del corso di calcio, sarebbero allenamento non solo dei piedi, ma anche della mente, dell’anima, della sensibilità. E’ un provvedimento facile da farsi. Poi, anche qui, inserire una normativa intelligente per gli insegnanti di musica, che son sempre gli stessi musicisti di cui sopra, che per guadagnare duecento euro al mese devono aprirsi una partita Iva…  Sarebbe tanto più semplice pensare ad un metodo di assunzione leggero, così da non gravare le famiglie dei costi di insegnanti inquadrati come liberi professionisti. Ci vuole poco a trovare una soluzione adeguata. Ha mai visto quello splendido documentario sulle orchestre costituite con ragazzini delle favelas del Venezuela? Orchestre che peraltro suonano da paura? Mi chiedo perché non partire da quel presupposto: investiamo sul calcio (…) mentre si potrebbe farlo benissimo anche con la musica. Con un risultato straordinario.

Sa, sono davvero abbattuta nel vedere come eticamente la “mia” Italia sia in recessione, da tanti anni. Penso che entrambi la pensiamo allo stesso modo, ovvero che sia la cultura la chiave di volta per far rialzare il nostro paese dal baratro becero di ignoranza e valori indegni in cui è precipitato. Io ho fiducia in lei, faccia un’azione di coraggio e si butti.  Di certo ne saprà più lei e i suoi collaboratori di me, ma la faccenda la vivo da 40 anni sulla mia pelle e mi creda, sono tanto, tanto tentata di fuggire anche io dalla barca che affonda.
Però, che devo dirle, nella mia città c’è un teatro che si chiama come un uccello che, ogni volta, rinasce dalle ceneri…. come un incendio che brucia musica, ricordi, suoni, ma in un modo o nell’altro si rimette in piedi. Noi a Venezia ne sappiamo qualcosa.

Le auguro buon lavoro, signor Ministro. Quando ha voglia, le offro un caffé.

Anna

Guadi, refrain.

Guadi, refrain.

Un mese fa mi si è rotto qualcosa.
Una brutta discussione, di quelle in cui rimani basita dalle parole, dai discorsi e dai concetti fuori dal mondo. Stai lì come un ebete, senza sapere nemmeno come reagire, consapevole di essere uno sfogatoio di mille altre cose accadute, un povero cristo prescelto per prendersi tutti gli insulti destinati a quelle due ultime settimane. Ho cercato di difendermi, in cuor mio so di aver bontà delle mie ragioni, ma in verità devo difendermi da altro, non da un avvenimento, ma da tutto altro. Altro che ha enormi controsensi. Non capisco. La testa mi scoppia, sono stanca, ho dato molto, ho portato alla meta molte cose con fatica, ma arrivata in cima, quando nessuno ormai vede, vengo presa a schiaffi.

E’ una sensazione che ho ancora addosso. Provo a sganciarla da me, provo a passar sopra e dimenticare, provo a chiarire le priorità, riflettendo con lucida analisi. Decisioni ovvie da prendere, che però coinvolgono altri, i cui volti mi passano in rassegna davanti agli occhi, con le loro voci, le loro idee e progetti. Ma nemmeno il non voler condividere una visione così distorta, certamente comoda, di una catena di montaggio, forse molto moderna ma completamente fuori dalla mia etica in cui l’allievo viene prima di tutto, di tutto. Ne ho parlato ancora, con gli amici fidati, senza riuscire a far comprendere quanto mi faccia ancora male, probabilmente.
Andrò oltre, come ho sempre fatto. Ma addosso ho lo sgomento di chi ha fallito, per troppo entusiasmo, per troppo amore per questo mestiere, per l’abnegazione da educatore, e difensore, e mamma chioccia. E di certo il velo becero dell’opportunismo non mi appartiene.

E’ un dolore solitario. I ragazzi li prendi per mano, li sgridi, li proteggi, li lodi, li mandi sul palco seguendo con le labbra e il fiato ogni loro nota, e li lasci scendere ad abbracciare madri e fidanzati, che han avuto forse meno ansia di te. Dopo qualche anno scompaiono,  proseguono le loro vite, tengono la musica come lavoro o come ricordo, o come parte della loro pelle. E quando li incontro, sono felice di averli aiutati o anche spinti a salire uno scalino in più della loro vita, dietro le quinte.

Non ho ancora deciso cosa fare. Sto qui a martoriarmi lo stomaco cercando la via più logica, consapevole che si chiudon porte e si aprono portoni, come è successo altre volte. E forse le situazioni troppo totalizzanti a volte è bene lasciarle andare, che tolgono troppe energie. Questa, come altre.

Ecco, sulle altre sono ancora meno ferrata. Forse perché meglio concentrarmi su questa, che nasconde abbastanza bene tutto il resto.

Qualche giorno fa ho deciso di guadare un torrente. Dovevamo andare dall’altra parte. Una cosa non complicata, abbiamo trovato il punto meno pericoloso. Eppure mi son ritrovata ferma, immobile, senza riuscire a passare, dopo il primo passo, ne’ avanti, ne’ indietro. Scivolavo sulla roccia bagnata. Vertigini, panico, non lo so.
Ero ferma, senza forze, confusa, ne’ avanti, ne’ indietro. Eppure, così al sicuro in quel limbo.
Forse gli amici di vecchia data capiranno. Me, e i miei guadi.

Le valli vuote

Le valli vuote

D’un tratto, un panorama. Anche il vento si spense, anche il sole rimase muto. Tutta una valle, fuori dall’auto, le si presentava davanti ad accogliere tutti i suoi pensieri. Stava voltando la pagina, lo sapeva, lo sentiva; si stava crogiolando negli addii, cercando di imparare a farne a meno, andando un poco più avanti. Si era appoggiata per tanto tempo, per sopravvivere, per ripararsi dalla tempesta, ma ora era pronta per proseguire.

Era forte. Fece molta strada, armata di tenacia, di fiducia in quel karma che doveva restituirle ciò che era stato versato, in lacrime e ostinata inerzia di proseguire. Sistemata con ordine la vita, aveva preso l’equilibrio. Era tutto a posto.

Poi, poi un’altra vallata. Un altro spazio immenso in cui versare i suoi traguardi, i suoi nuovi bagagli. E lì, lì pianse. Come una bimba abbandonata.

La vallata era di nuovo vuota, silenziosa, trasparente. Aveva messo tutto in ordine, eppure quelle mani erano piene di tagli e sofferenze, senza carezze a proteggerle, quegli occhi avevano visto troppo a fondo nelle cose e nelle persone, da non credere più. Quand’era ragazza pensava fosse tutto più facile, pensava che qualcuno avrebbe sempre pensato a lei. Non immaginava di dover arrampicarsi sola, per quella dannata vallata, cacciata giù da chi aveva amato. Aveva lottato tanto. Lei lo sapeva. Gli altri, gli altri no.
Aveva raggiunto tutto quello che aveva desiderato, ma era sola.

Si sedette sul bordo della strada, abbracciando le ginocchia. “Noi non esiste”, si ripeteva, “esisto solo io, io sola”. Voleva riuscire a metterselo in testa, una volta per tutte.
Aveva dato a tutti, occupandosi di tutti, amandoli tutti. Amandoli in quel modo in cui nessuno l’aveva mai amata.

Raccolse i pensieri, li rimise in tasca, accese la macchina e proseguì. La vita sembrerà ancora così felice, i sorrisi saranno così leggeri. Peccato che il vuoto, ogni tanto, ucciderà.

 

 

L’amica in carriera

L’amica in carriera

Lo disse sincera, cercando di non sembrare ruffiana. Ma lo vedeva, lo sguardo sospettoso, sprezzante, un po’ borioso.Mentre usciva dal bar ci pensava, guardando a terra, a disagio, in un mondo (oddio, un mondo forse no, diciamo il microcosmo di quel paio d’ore) in cui un complimento è sempre merce di scambio, quando non addirittura un velato insulto.
Era un bel lavoro, le era sbocciato puro e pulito l’entusiasmo, le sembrava carino e “ovvio” riferirlo.  La sua amica (oddio, quando gli amici fanno carriera bisognerebbe trovargli un altro nome comune di persona) la guardava minacciosa. “In che senso”, le aveva detto, e okay, iniziò a spiegarglielo. Tabula rasa di aggettivi e parole azzeccate, ogni descrizione le usciva male, con mille interpretazioni e gaffe. Si ingamberava su vari “non nel senso… con questo non voglio dire che… però, cioè…. no ma comunque… ecco intendo dire…” ed a ogni parola l’amica alzava sempre più il sopracciglio.
Sua madre non aveva sopracciglia, le disegnava. Un segno nero, poco naturale. Quando si insospettiva, corrucciava gli occhi, e quelle finte sopracciglia si incurvavano, due accenti minacciosi che precludevano ogni discussione positiva.  La sua amica, uguale. Un’ansia. Ma un’ansia.

Le bruciava la sedia, giocava nervosa con la tazza del caffé, implorando un evento qualsiasi che la togliesse da quell’imbarazzo: spiegare all’amica in carriera che era un bel progetto, eh, e che non voleva nulla in cambio, non c’era polemica o schernimento. Insomma, era idiota mettersi nella difensiva. Ma ci aveva provato, a spiegarle, dosando le parole, pensando ingenuamente che poteva farle piacere. Ma de che. Era meglio, tanto meglio parlare del tempo, e piove sempre, e non si sa come vestirsi, e via così. O anche meglio: ciao. Fine. Senza nemmeno troppo entusiasmo.
Eppure era convinta che, anche se “arrivata”, poteva essere sempre la sua amica, con cui chiacchierare a proprio agio. Senza dover dosare le parole. Senza passare per un’opportunista, o peggio, per una groupie fastidiosa, o una stalker.

Senza dover accettare che, anche questa, ormai se la tirava come una fionda.
Quasi, quasi quanto me.

 

Il Saggio di Musica

Il Saggio di Musica

Per molti sta solo finendo la scuola, per altri è l’inizio della definizione delle vacanze, per altri inizia un rilassante periodo di vita all’aria aperta, movimento, cibi freschi, sole, film anni ottanta alla tv.
In realtà, non c’è niente da rilassarsi: a fine maggio ci sono i saggi. Gli stramaledetti amati saggi di musica.
I saggi sono quel momento in cui i tuoi allievi devono dimostrare che i soldi versati dai loro genitori siano fruttati, a prescindere da capacità o applicazione dei figli. Tutta la famiglia investe nelle lezioni settimanali, in denaro e tempo e spostamenti e tagliando del parcheggio, per potersi recare, con nonna e zio con telecamera al seguito, dentro un teatro/auditorium/salaconcerti ad applaudire il pulzello di casa.

I ragazzini vengono agghindati con camiciola e gilet (che non metteranno in altra occasione se non al prossimo saggio), le fanciulle con gonnellina e ballerine, e non di rado un’acconciatura fresca di parrucchiere. Hanno il loro spartito sottobraccio, studiano muovendo le dita silenziosamente su strumenti o tastiere immaginarie, perché una strana logica li induce a credere che sia fondamentale ripassare fino all’ultimo momento, ripetendosi “non mi ricordo niente, non mi ricordo niente” fino al salire sul palco e, non di rado, fermarsi dopo la prima battuta. Una legge di Murphy dice che studiare in camerino due minuti prima dell’esecuzione porta regolarmente alla stecca, ma è ancora presto per insegnargliela.

Gli allievi sono di tipologie fisse, solitamente.

L’allievo giudizioso tuttogiusto

Educato, preciso, non sempre estremamente dotato ma votato al sacrificio, studia musica secondo uno specifico planner familiare, suona tutto giusto ma sbaglia sempre lo stesso passaggio (lo sbaglierà anche sul palco) e non ha emozioni. O meglio, le ha ma solo se esce dallo schema (tipo, dimentica il libro a casa, non è riuscito a studiare, tutte cose normali in un altro ragazzino ma che per lui equivalgono ad una tragedia). La madre solitamente non parla con l’insegnante. A meno di non volersi vantare dei successi di figli (e della madre “ai suoi tempi”).
I suoi libri non sono mai sciupati, li tiene aperti con le mollette.

L’allievo dotato

…che per una strana congiuntura astrale, non studia mai una mazza. Ha la testa altrove, è disordinato, perde la concentrazione e porta l’insegnante a quasi pregarlo di ripassare a casa, un poco, ogni tanto. Ha una primavista spettacolare, che gli salva il didietro ogni volta, un buon orecchio, capacità incredibili associate a studio quasi nullo. Solitamente le ipotesi di carriera sono due: si folgora e trova il modo di studiare con piacere (sempre poco ma in modo funzionale), oppure inciampa in un saggio/concerto disastroso (per il suo standard) e molla tutto. I suoi libri sono spesso spiegazzati (arrotolati, con macchie di ogni tipo), la pagina dello studio non rimane mai aperta sul leggio. Arriva sempre, sempre, in ritardo.

L’allievo appassionato

Adora il suo strumento. Ascolta tutti i dischi, legge le biografie dei grandi solisti, studia come un matto. Ha qualche problema di ritmo, odia il sei ottavi, non è intonatissimo ne’ particolarmente sincronico con le dita. Bisogna spiegargli le cose da diverse angolazioni, perché spesso la prima spiega non funziona, ha bisogno di continui input su come studiare ogni passaggio. I libri sono pieni di annotazioni, cerchi, diesis di salvezza. Inizia lo studio e si ferma alla prima battuta per ricominciare di nuovo almeno una ventina di volte. Un diesel insomma. Fa una fatica bestia a fare ciò che l’allievo dotato fa a prima vista, ma spesso arriva molto più in là. E’ quello che arriva sempre in anticipo, talmente in anticipo che spesso studia già anche lo studio successivo. Ai saggi combina spesso mezzi disastri per l’ansia, ma alla fine è quello che più riempie d’orgoglio l’insegnante.

L’allievo perennemente giustificato

Arriva in ritardo per motivazioni nobili. E’ morto il nonno (5, 6 nonni all’anno), l’incidente davanti a casa, il contrattempo incredibile (c’è da farne una letteratura straordinaria in merito). Prima di iniziare il pezzo deve chiedere qualcosa. Qualsiasi. Quando inizia suona le prime due righe ignorando gli accidenti in chiave, o aggiungendone a piacimento. E non se ne accorge finché non lo si ferma. L’orecchio non funziona, la primavista non è un granché. Se si pone la questione “non hai studiano una cippa” ricomincia la farsa delle giustificazioni fantasiose, quindi conviene mettere a frutto quell’ora di tempo senza troppe riflessioni. Solitamente è pure un peccato, ha delle doti ma se ne frega altamente. La pagina dello studio non rimane aperta, ma a dire il vero non si ricorda mai quale sia lo studio che doveva fare per casa, quindi è ininfluente.  Al saggio va con brani semplici, studiati da settembre, ma ad ogni lezione avrà accumulato un errore nuovo che si sommerà agli altri. Dimenticherà le prove, chiederà se per favore può suonare per primo perché ha un appuntamento fondamentale. Sbaglierà ma sarà colpa di chi lo accompagna. Agli esami è sempre tutta colpa della commissione.

Preparare i saggi è un terno al lotto: devi scegliere i brani a seconda di capacità, resa, tempo. La preparazione si alterna tra spiegazione millimetrica del brano, due settimane di studio, assestamento del brano (con salvifichi tagli ed adattamenti d’emergenza), prove. C’è un momento di picco nella preparazione del brano del saggio, se si sfora di una settimana (quindi se non lo ha sufficientemente assimilato oppure se è oltre la soglia della noia nel ripeterlo) siam fregati.
La penultima settimana è quella fatidica: arriva il cazziatone. Tutte le categorie degli allievi, vuoi perché arriva la primavera e ne hanno due balle di stare a casa a studiare, vuoi perché non si rendono conto che mancano solo due lezioni, sono allo stallo. A seconda di età e di appartenenza alle suddette categorie, si insiste sulla musicalità o sul passaggio ancora insicuro o sull’ansia da dominare. Oppure si minaccia di non far fare il saggio, lasciando a casa nonna e zio con la videocamera.

Al saggio son tutti belli. Le mamme son tutte sorridenti. Le nonne son parcheggiate e spesso dimenticate lì a fine saggio. Dietro il palco, il panico. Ho pauura ho pauura, nonmiricordoniente, aspettaprofquicomedevofare, chimivoltalapagina, e in ogni angolo a provare e riprovare gli stessi passaggi, incrementando la legge di  Murphy.
Per ognuno di loro il Maestro dovrebbe stare lì a vegliarli, solo loro, con il fluido miracoloso. Salgono, e il fluido ci si prova davvero a farlo passare. Iniziano a suonare, e respiri con loro, e muovi le dita con loro, e provi telepaticamente a dirgli di prender fiato, di non correre, di non esser troppo crescenti. Spesso funziona. Quando finiscono, ti cercano mentre il pubblico applaude, e allora tu sorridi, comunque, qualsiasi cosa sia accaduta. Qualcuno scenderà dicendo “ho sbagliato tutto”, allora rispondi “non è vero, comunque non dirlo a nessuno, son segreti nostri, vai a festeggiare, ne parliamo a lezione”. Altri si dimenticheranno di te, andandosene senza salutarti. E pazienza.
Poi se ne vanno tutti, e stai lì a smontare leggii, raccogliere gli spartiti dimenticati, arrotolare cavi e traslocare amplificatori. Come l’usciere che scopa via il riso davanti al municipio, mentre tutti gli altri sono al banchetto di nozze.

Magari ti riprometti che l’anno prossimo ti sbatterai meno, niente ore di prove fuori dalla lezione, studietti per tutti e basta adattamenti e trascrizioni per fargli far bella figura, facendoti smadonnare per settimane.

Poi, gli sms:
“son andato via di corsa, ho avuto un contrattempo” (L’allievo perennemente giustificato)
“ho sbagliato tutto, scusami, la terza battuta del primo movimento e poi anche il crescendo della terza eppoi ero crescente e accelleravo e…” (L’allievo appassionato)
“ciao, la prossima settimana c’è lezione?” (L’allievo giudizioso tuttogiusto)
“ho dimenticato lì lo strumento e le parti e il leggio e la giacca?” (L’allievo dotato)
“abbiamo dimenticato lì la nonna?” (La mamma dell’allievo dotato)

Ed ogni volta assale la solitudine, l’aver fatto da madre a quei ragazzetti, tenendoli per mano in equilibrio sul pentagramma, riempiendoti d’orgoglio, con poca riconoscenza. Poi ti volti, e a fianco a te c’è il volto sorridente di chi crede ancora in te, che ti dirà grazie anche quest’anno, dopo il saggio.
Dopo che l’avrai portata a casa.
La nonna.

Non sto mica bene (ho bisogno di studiare)

Non sto mica bene (ho bisogno di studiare)

Mi piace studiare.

Non sono mai stata una secchiona, anzi. Il minimo sforzo era il mio motto, tutto e subito, una letta la sera prima del compito in classe, grande fantasia per l’interrogazione. Gli ultimi esami della vita invece, ormai madre di famiglia, li ho fatti meglio, prendendomi tempo, facendo riassunti e schemi e mappe, appassionata delle mie materie preferite, come se prima dei 35 anni non avessi conosciuto il piacere dello studio.

La musica è sempre stata argomento diverso. Avevo creato una scaletta anche per lo studio quotidiano: venti minuti di note lunghe, poi tecnica, scale, staccato, flessibilità, almeno un’altra buona ora. Poi lo studio del repertorio, a seconda dei concerti che avevo in programma. Era vitale. Le giornate in cui il leit-motiv era “oggihounsuonodimerda” erano nerissime, come se mi fossi riempita di brufoli il viso nella notte, come se mi fosse caduto un incisivo, tutti ad un solo sguardo avrebbero visto che “hounsuonodimerda”, peggio di una crisi depressiva acuta. Che poi, il brutto suono spesso è solo la percezione aumentata, l’orecchio che chiede di più, tant’è che se non suoni per due mesi ti sembra di avere un suono bellissimo… mentre è solo che ti sei scordata cosa voglia dire “suono bellissimo” coi tuoi paramentri.

Studiare è come un allenamento: è alienante, assorbe energie e pensieri, ti ripropone limiti e paranoie, senza filtri. C’è la rassegnazione del passaggio che non esce, per il quale ti affidi al tempo, che asciuga ogni ferita e ripara ogni incertezza tecnica con la magica forza della ripetizione.

Io ho un leggio, con appeso il metronomo e l’intonatore, varie matite e cartine. Di fronte lo sgabello. Spartiti pochi, dopo tanti anni le cose quotidiane sono tutte a memoria. Il mio microcosmo.

Ora il tempo è poco. Lo studio è razionalizzato, deve ampliarsi con l’ascolto, il pianoforte, la scrittura. Spesso ho giusto il tempo per mettere a memoria i pezzi, ripassare qualche giro di accordi più caustico, fare fiato, leggere le parti.

Studiare mi manca. E’ stato il mio compagno di vita da sempre, conosco ogni dettaglio dei miei difetti, ogni meccanismo mentale che mi porta a fare una cosa o l’altra, le tonalità in cui incespico, le note in cui cresco. Una sorta di meditazione, di necessario contatto con se stessi, di bisogno primario. E quando non posso studiare, sento davvero che non sto bene.

Tipo adesso. Non mi sento proprio bene.

Cosa sto facendo.

Cosa sto facendo.

Si raggomitolò nel pullover indossato confuso, la borsa, con le cose della sua vita che spuntavan da dentro, aggrappata  sulla spalla. Sotto di lei l’asfalto rotolava sotto i suoi passi, senza che un marciapiede, una strada, un incrocio, fossero differenti. Solo strada, quella che prima o poi avrebbe esaurito i suoi pensieri.

L’occhio a terra, l’angoscia liquida che le riempiva gli occhi, la vergogna di non potersi compatire per le proprie azioni deboli.
Aveva agito quasi d’abitudine, le era tornata addosso quella debolezza, forse mista all’essere annoiata, demotivata, masochista, sbagliata. Le erano tornati addosso quei gesti, che le riuscivano così bene, così naturali da convincerla che in fondo sarebbe nata per esser così.

Sbatteva le ciglia, e nel frammento di buio tornavano le immagini della penombra, la casa di un’altra, l’uomo di un’altra. Carezze e gemiti fuori dal tempo, senza un aggancio ad una buona ragione. Nei suoi gesti, non quelli da innamorata, quelli di chi sa che non deve confonderlo con l’affetto, continuava a dirsi, di continuo, “cosa sto facendo”.
Di nuovo, il ruolo dipinto addosso dell’evasa, della criminale, della cattiva ragazza. Lo stomaco chiuso e il benessere della sofferenza dell’uccidere ciò che di buono aveva ricostruito.
Chissà cosa pensava lui. Chissà perché incastrarsi in una cosa simile, pensava alla sua vita perfetta, senza motivo di cercare altro svago sporco. Ma anche no, non ci pensava a lui. Aveva scopato con lui, aveva scopato con l’idea d’odio che ritrovava in quel gesto, odio per ciò che non era capace di diventare … pulita.
E non c’era amore, non c’era tenerezza, solo l’incontro di due solitudini insulse, senza nulla in comune, se non l’angoscia e la codardia di cercare una vita normale.
Si strinse addosso la borsa, per abbracciarsi un po’. Per un istante tutti attorno si fermarono. Le auto immobili, spente. La gente affacciata fuori dai negozi, dalle finestre dei piani più alti. Vecchi, bambini, famiglie, innamorati, abbandonati. Tutti, all’unisono, alzarono un braccio, il dito puntato su di lei.

Oscena, per non saper fuggire dalla perversione.
Sbagliata, per non aver saputo accontentarsi di un amore normale.
Condannata, perché quell’angoscia le nutriva l’anima, la teneva in vita.

Le braccia puntate come armi, alla sua consapevolezza di non saperne fare a meno, di non essere convinta che quell’amore normale andava protetto, e difeso, e premiato dal sacrificio, dalla fedeltà.
Le carezze del tradimento ancora addosso.
Attorno il mondo andava, senza accorgersi di lei. Nessun braccio alzato, se non quello della sua se’ stessa carnefice.
Riprese la strada, mise in piedi un castello di bugie a caso, sorrise al ragazzo coi fiori, si fece stringere nell’abbraccio, accolse il suo bacio. E si lacerò, per non riuscire a provar vergogna.

 

Tengo le unghie corte.

Tengo le unghie corte.

Tengo sempre le unghie corte. Voglio evitare la tentazione di arrampicarmi sugli specchi per giustificare i miei errori.
Non ci metto lo smalto. Non mi piacerebbe vedere del colore sulle mani, con sotto la tastiera del pianoforte, potrei confondere la dinamica.

Ci metto la crema, sulle mani. Sono sempre molto grata al loro lavoro, allora le spalmo con affetto e riconoscenza.

Mi è capitato di avere tagli profondi, o brutte storte, o contratture pericolose dopo cadute da cavallo. Le ho viste rosse di geloni, blu di ematomi, bianche ed indirizzite, abbronzate col segno degli anelli. Anelli che non porto più.

Le guardo, ora che saltellano sulla tastiera sopra le lettere, ci rivedo tutte le coccole date, gli schiaffi repressi. Le mani strette, i saluti da lontano. Il mignolo poi, in cui vedo ancora la mano di un neonato  che lo stringe forte.

Oggi queste mani le userò bene. Per farne solo carezze.