…come imparerai a cantare.

…come imparerai a cantare.

E così Lei digita il titolo su google, e ci aggiunge “lyrics”. Trova il testo, fa per stamparlo ma le appare l’ologramma della sua maestrina di canto, che aborra i testi con tutti i banner pubblicitari intorno.

Poi prende la base da YouTube, ignora il foglio del testo e si legge le parole sul video, e “studia”. Studia il pezzo. Stile karaoke. E ne è sicura, è il modo giusto. Veloce, pratico, soddisfacente, poco faticoso. “Ottimizzato” per un’esecuzione senza variabili.

Lei, e non solo lei, costruisce castelli di carta pensando di abitarci. E si perde il mondo strardinario e poetico dell’architettura.
E che già il mondo del canto ha così sfortuna di avere un solo filo da seguire, con sillabe che nascondono, sotto, le note, ritmi, le estremità di armonie, senza che la voce li lasci carpire.

Quando poi Lei entra in classe, col suo foglio lindo e la sincera convinzione di esser pronta, alla prima domanda banale della maestrina spalanca gli occhi, come se davvero le si stesse chiedendo un altro argomento, su cui non si è preparati, non si ha studiato.
Piano piano le parole del foglio si mettono insieme, si spostano ballando da un lato della struttura all’altro, e diventano frasi, e sensi, e colori.
Parole che stavano lì ad attendere che qualcuno le raccogliesse ed intonasse con attenzione, sillaba per sillaba, come strumento appoggiato sul tavolo, già accordato.

Ed ogni fiato, a regolare il ritmo della storia, che ora prende tutto un significato che prima era confuso, da quella frettolosa ignoranza pigra di chi viaggia in treno, leggendo il libro senza mai guardare il mondo scorrere fuori dal finestrino. E si perde le cose disegnate dal tempo.

La maestrina appoggia gli accordi sul piano, svestendo la canzone con delicata decisione, e lascia l’ultimo suono col pedale, attendendo che Lei attacchi. L’indecisione, la lieve rabbia per non esser messa a proprio agio, con la base rassicurante che è tanto comoda. E poi attacca, il foglio tra le mani e parole che aveva visto, ma mai osservato. E che strano, dicevano un sacco di cose diverse ora. E salivano, e scendevano come a dipingere un immenso paesaggio attorno.

E non c’era bisogno di spiegare il crescendo, il diminuendo, lo stringere le frasi fremente di arrivare ad esplodere nel ritornello, già, quella cosa che Lei prima ripeteva quasi annoiata, tutto uguale. Il ritmo sotto, quasi un paio di rotaie solide a portarla avanti. E un cuore che batte forte, e quasi la commozione per la propria voce, e per tutte cose che non aveva ancora conosciuto.
Ogni tanto chiude gli occhi, allunga le note e le vibra, ed appena perso il controllo spalanca le palpebre per timore d’essersi “persa”, dentro le note.

E piano piano, finendo l’ultima delle parole, chiudendo l’ultima delle frasi, con dentro il fiatone di chi aveva compiuto una grande impresa, attende l’ultimo accordo del piano, sparire.

E così oggi ha imparato  cosa vuol dire, cantare.

 

Gli gnocchi del nonno

Gli gnocchi del nonno

“Gli gnocchi fatti in casa sono la specialità della nostra famiglia, mio nonno me li faceva più o meno una volta al mese; ma quando il gusto ti resta impresso nel palato non ha prezzo. Mio nonno li faceva con mia nonna e occasionalmente li aiutavo. Quel piatto di gnocchi, con il ragù fresco di freezer, quando ti arriva il piatto, con la fragranza che incontra il tuo olfatto poco raffinato, capisci subito che è un piatto rustico e raffinato. Il piatto è composto e posizionato “alla buona”: uno strato di gnocchi fumanti con una sfumata di ragù di capra o qualsiasi altro ragù, perchè quel piatto sta bene con qualsiasi condimento: passata di pomodoro…oppure semplicemente in bianco. Io non ci riesco mai a resistere al gusto e al sapore di un buon piatto, perchè non tutti i piatti sono uguali, ognuno ha la quantità nel più e nel meno di ragù e di gnocchi, ma ognuno ha dei sapori unici e ineguagliabili.

Da quando mio nonno morì provai in tutti i modi a rifarli, ma quel sapore magico, quell’odorato fantastico, quasi surreale, non lo sentii più. E’ passato quasi un anno e credo che quel sapore non ritornerà.”

Gabriele, 12 anni.

Quando hai un musicista in ufficio

Quando hai un musicista in ufficio

Al Bar io e Franco mangiamo una briosce, assieme al caffè. Ci arriva la battuta, tanto banale quanto vera, “ma dai, anche i musicisti mangiano?”.

Ci sono altri colleghi che nemmeno sanno, ed è bizzarro che qualcosa di così forte non sia visibile all’esterno. Qualcosa di cui andare fieri, una chiave di violino tatuata negli occhi, nella mente, nelle azioni.
Un valore aggiunto, con tutti i pregi che i musicisti hanno: l’impeto creativo, il carattere tenace, la costanza e la mania di perfezione, la predisposizione per la tecnologia, l’apertura alla collaborazione come alla leadership. E la resistenza alla fame.

Eppure c’è quell’altro, che “pensi solo alla musica”, e ti senti arrabbiato, offeso, frustrato. Come fossimo esseri infetti, o nullafacenti, o idioti illusi che pensano e pretendono di essere al pari di un architetto o di un ingegnere, solo perché suonano uno strumento (“embé, anche mio zio suona la fisarmonica”) e hanno fatto il conservatorio.

Già, i musicisti sono alla fine della catena alimentare.

Ma poi, poi capita la collega che ti infila delle cuffie nelle orecchie, con l’adagio di Marcello, e ti chiede che ne pensi.

E niente, pensi che sei un virus in certi ambienti, e ringraziando il cielo riesci ad infettare qualcuno, rendendo quell’ambiente migliore, almeno un poco.

Come imparare a scrivere canzoni

Come imparare a scrivere canzoni

C’è sta fissa che uno deve scrivere una canzone, una volta nella vita. Come se ziliardi di musica già scritta non fosse sufficiente, come se gli stessi ziliardi si fossero già studiati, smontati, riarrangiati, reinterpretati e ci fosse ancora qualcosa da scrivere che non sia già stato scritto.
Sarà che il fascino di dire al pubblico “questo è un mio brano, scritto nella mia stanza buia guardando la pioggia in un momento di profonda introspezione e domande sulla collocazione dell’io nella società moderna” è insanamente affascinante.

Per scrivere un brano, non si parte dal testo.
Sembra una banalità, ma è come pensare ad un matrimonio e scegliere l’abito prima del marito. (Che poi c’è anche gente che, ecco).
Facciamo una lista di cose da sapere, prima di scrivere un brano.

1. Suonare uno strumento. Armonico, possibilmente, tipo pianoforte o chitarra. Non serve arrivare a Chopin, basta avere le basi per capire come diamine si scrive un brano. O meglio, cosa scrivere in modo che mentre voi enunciate il vostro testo con una casuale melodia, tutti l’artri non suonino altrettanto a casaccio accompagnandovi.

2. Imparare quattro acche di armonia. L’armonia è la grammatica della musica, se odiate chi sbaglia gli apostrofi, siate buoni, imparate che una dominante ha la settima minore, che non tutti i brani sono fatti sul giro di do o sui four chords, e che si possono usare altri accordi invece che riproporre la stessa minestra modulando la tonalità quando si son finite le idee (…)

3. Imparate a trascrivere. Prendete un brano, magari iniziate da una ballad, e trascrivete. Prima il basso, poi gli accordi, poi la melodia. Controllate la struttura, com’è formata la strofa, poi il ritornello, poi l’interlude. Analizzate la melodia, se parte in levare, se cade con l’accompagnamento, che note fa rispetto all’accordo che sta sotto. Cercate di capire il segreto di quel brano, il tipo di arrangiamento particolarmente figo, un riff di chitarra funkettone, la batteria choc. Scoprirete che c’è dell’altro oltre alla bella topa che canta il brano con la scollatura di fuori. Sebbene anche questa sia fondamentale, spessissimo.

4. Trovatevi un buon Maestro di Musica, possibilmente moderna, e ricominciate sotto la sua supervisione, tutta sta menata dal punto 1. Nel contempo, fatevi lasciare dalla morosa, andate in viaggio in India, fate bambini, insomma, cercate di avere qualche emozione che possa indurvi a scrivere qualcosa.

5. Provate a scrivere una canzone. Giurate a voi stessi che non la farete sentire a nessuno, state imparando, quindi risparmiate amici, fidanzata (che tanto vi ha già mollato) e soprattutto I SOCIAL NETWORK dei vostri insani primi passi da cantautori. Provate ad inventarvi tutto insieme, testo e musica. Mettetevi al piano, o alla chitarra, e cercate un giro di accordi interessante, e provate a cantarci sopra una melodia, delle parole. Scrivete mano a mano il tutto, volendo registrate (ma poi sbobinare le 6 ore di impeto artistico saranno deliranti). Suggerisco di partire dal ritornello, vero fulcro del brano, invece che iniziare con i tipici 20 minuti di introduttivi con il mantra di un arpeggio minore mentre voi ci ululate sopra, che non portano da nessuna parte (ad eccezione, inserendoci i grilli, che alle musiche d’atmosfera dei centro benessere).

Quindi: ritornello. Bello, figo! Poi, strofa, almeno due. Poi un interlude (alias parte che c’entra un piffero col resto ma dà respiro al pezzo, e slancio per il finalone con ritornello figo declamato ai posteri). Intro, coda. Fatta.

Visto? Non ho detto niente del testo. Non  ho detto se serve la rima. Non ho detto se dovete parlar d’amore o di cotoletta alla milanese. Non ho detto se è meglio in inglese o in italiano o in burundese.

Perchè, e questo ve lo dico alla fine, ma sarebbe bello lo capiste dall’inizio, una bella canzone ha le note belle, anche se decantate la lista della spesa. Altrimenti, è solo l’ennesima noiosissima opera onanistica con la quale impesterete You Tube ed affini.

La prossima puntata vi spiegherò come diventare intonati.

No vabbè. Parleremo della cotoletta alla milanese.

 

Non fatemi gli auguri.

Non fatemi gli auguri.

Non fatemi gli auguri. Non regalatemi mimose. Non invitatemi a spogliarelli.

Non chiedetemi di uscire nella bolgia delle reunion fra donne, nelle quali comportarsi da invasate o peggio, ritrovarsi a mangiare una pizza, festeggiare, festeggiare che cosa mi è ignoto, e alla fine annoiarsi, e parlare (ovviamente) di uomini.

Se volete, informatemi delle conferenze, delle mostre, dei documentari, fatemi riflettere, parliamone, insieme agli uomini. Tra noi, non risolviamo nulla se non incastrandoci in un instinto femministico che porta a poco.

Volete davvero farmi per forza un regalo?.. okay.

Provate a smettere con le battute sciocche sulle bionde. Provate ad apprezzare una donna per le sue peculiarità, senza insistere sulla misura di tette, sulla lunghezza della gonna. Provate a riconoscere quando una donna fa la civetta per gioco, senza darle della puttana di default. Provate a dare affidamento nella forza interiore di una donna, ma anche nella forza fisica, perchè metter una mensola o cambiare un lampadario non è per forza “roba da uomini”. Provate a stroncare l’abuso delle armi di seduzione per l’ottenimento di attenzione, relazioni, lavoro o amicizie, prima di usare solo lo sfoggio della propria intelligenza e personalità.
Provate, VOI DONNE, provate. Perché il femminismo nocivo non proviene altro che dalle donne stesse.

E voi, voi uomini. Grazie per la pazienza.

ich tus

ich tus

Spesso ci sono cose più importanti, più serie, più gravi. Già.

La mia gatta, l’arzilla sedicenne Jazz, ha avuto un ictus. Due settimane fa ormai, di notte, rantolava in mezzo al corridoio, storta, sguardo drogato, slanciando le zampe qua e là. Mi sono detta, okay, mi lascia, la tengo in braccio e la saluto con calma. Niente lacrime e pianti, ma il solito pragmatismo e un freddo programma di azione: come dirlo al pupo, veterinario, dove seppellirla, pensare se l’altra gatta sia bene lasciarla sola o trovarle altra compagnia.

Insomma, fredda e calcolatrice, che insomma, son solo gatti.

Poi invece scopri che lei tiene botta, piano piano la pupilla torna normale, mangia, miagola. Non si ristabilisce, ma non molla. Non si alza, non arriva alla lettiera, dimagrisce, ma tiene botta.

Sta cosa dell’ictus mi giunge nuova, non ne sapevo nulla. E come sempre, cerchi in rete informazioni, chiedi ai veterinari, provi ogni cura immaginabile. Cerchi di comprendere fino a dove puoi sperare in un “risveglio”, in uno stato che le possa dare qualche altro anno dignitoso.

E ne senti di ogni. Ti chiedi se è bene sperare, se è il caso di non curarsene troppo, aspettare il corso della natura. Prosegui con le tue cose, organizzandoti per assisterla insieme a tutte le altre priorità, figlio, lavoro, studio, vita.
Cucini, studi grammatica col ragazzino, lavori sul mac, telefoni, e ti cade lo sguardo su quell’arruffato esserino peloso che dorme, come nulla fosse. Ti prende l’ansia, che ti squarta in due. Pensi che stai facendo tutto il possibile, e forse è inutile come l’ultima volta.

La vedi incapace di alzarsi, perde l’equilibrio e rotola dall’altro lato, miagola perchè si ritrova bagnata, il suo bel pelo persiano accorciato per tenerla più pulita, e uno sguardo a volte vuoto, a volte solo stanco.

Ecco, tutto qua. Ci sono cose più gravi, sicuro.
Ma mi dispiace, mi dispiace da morire.

Buona notte

Buona notte

Scivoló sotto le coperte, spazzolando i capelli e cercando di automatizzare il sonno. Dall’altra stanza i suoni accennati di un film a volume basso, l’alone di luce che cambia a scatti sulla parete del corridoio.

Vado a dormire, okay buona notte.

L’imbarazzo di andare a letto insieme, e voltarsi le spalle senza un abbraccio, senza provare ad aversi, o addirittura dover parlare, rispondere alle domande vere, fuori dai dialoghi di servizio, oh no, molto meglio rimaner sveglio ed attendere che lei dorma, innocua.

Lontani

Sarebbe bastato parlare, ma erano stanchi di farlo. Lui non trovava mai le parole giuste, lei comunque travisava investendolo di discorsi, e da una briciola scendeva una montagna. Non valeva la pena.

Dal salotto si spense la luce, rumori di interruttori e ciabatte stanche che venivano verso la stanza. Lei faceva finta di dormire, zitta, ferma. Avrebbe avuto bisogno di un abbraccio, ma il rancore era così forte che l’avrebbe trovata gelida ed infastidita.

Eccoli, uno voltato da un lato, una dall’altro. Un muro di abitudine e di malumore, di dimenticanze e scontatezza, vicini un istante ma guardandosi bene dal toccarsi, nemmeno per sbaglio.
Senza ricordarsi più il perché.

..cosa vuoi fare da grande?

..cosa vuoi fare da grande?

Quando ero ragazzina c’era un film di riferimento, Flashdance. Una saldatrice che sognava di ballare all’Opera. C’era il primo loft come appartamento finto-povero, c’era il balletto che termina con la doccia sul palco, c’era il miliardario che s’innamora della povera operaia, e la scena dell’audizione, la più copiata che la storia ricordi.
Ma non volevo mitizzare Flashdance, eh.

Ci ho pensato perchè siamo un esercito, di saldatrici che la sera ballano. Di impiegate che la sera suonano, di cameriere che la sera recitano. E ancora, poeti e scrittori, pittori, cuochi e maratoneti, che hanno il vizio di mangiare, e quindi di dover fare un lavoro normale.

Normale. Aggettivo che mi atterrisce. Come se fare il mestiere per cui invece si è dotati fosse anormale.

Ci pensavo perché noto da anni che a mio figlio non fanno mai la domanda tipica della mia infanzia: cosa vuoi fare da grande?… non lo chiedono più. Eppure era una di quelle domande automatiche, quelle a cui, appena arrivi all’età del sarcasmo, rispondi random, per spaventare con risposte avventate i convitati del momento.

A mio figlio non lo chiedono. E ora che ci penso, i miei allievi non mi dicono mai “voglio fare il musicista da grande”. Nemmeno i miei amici sanno cosa fare, da grandi. Non sappiamo nemmeno cosa faremo domani: è già tanto se ci rimarrà addosso il lavoro normale, è già tanto se riusciremo, ogni tanto, a sognare col naso per aria la carriera che avremmo dentro, mentre staremo al nostro posto, dietro alla saldatrice.

Oggi sono stata alle lauree in jazz delle mie amiche. Stasera ho preso la bomboniera della mia, di laurea, l’ho guardata e mi son detta che sono una pessima saldatrice, ma una musicista coi controcazzi, ed è quello che voglio (continuare) a fare da grande.

Ma i miei non sono sogni. Sono progetti.

 

 

 

Buon compleanno, Flauta.

Buon compleanno, Flauta.

Ti volti indietro, e vedi l’anno passato.
Un anno fa, mi son svegliata con gli auguri del mio papà, ben prima di sapere che mancava poco a perderlo dalle mani. Avevo ancora qualche esame, prima di stupirmi di me. Avevo ancora dubbi, che nemmeno l’alloro e le lodi mi son bastati a demolire. Avevo un amore, ch’era amico, ch’era amante, qualcuno di cui occuparmi con istinto di negazione, con grande affetto ma ancora tanti modus operandi del passato. Avevo un figlio, perso ed infelice, che non sapeva vedere nello specchio la sua immensa anima, ed il suo reale valore.
Avevo le stesse rughe che non ho ora, avevo gli stessi occhi stanchi e la stessa stanchezza nel mettermi a dormire, la sera, raccogliendo scampoli del giorno per prepararli a quello dopo.

Ti volti davanti, vedi quello che ti aspetta.
Orfana di origini, con ancora cose in sospeso con famiglie-non famiglie. Ho il materiale fresco da modellare, e le mine delle matite già appuntite, per disegnarne i progetti.
Ho un amore sempre più grande, ormai depurato dalle paure e dai condizionamenti, che sa rendermi… libera. E il mio piccolo uomo, che ora combatte i draghi con le armi giuste, e tenendomi per mano inizia a scalare la cima della propria autostima.
Ho le stesse rughe che non avevo prima, avrò gli occhi stanchi e la stessa stanchezza nel mettermi a dormire, la sera, ma raccoglierò scampoli di giorno che mi piaceranno di più.

Ho un anno in più, ma solo perchè avevo tante cose da fare. Per il resto, sono uguale.

Certe notti, notti certe

Certe notti, notti certe

Poi ci son sere in cui vorresti attenzione, perché non riesci a metter a fuoco cosa non funziona, ma quel che è certo è che non funziona. Ma il resto del mondo è occupato a farsi sostenere da te, e risponde occupato.
Son sere in cui senti la confusione fuori, e il silenzio dentro di te, un silenzio tremendamente assordante.

La soluzione migliore? Pianificare.
Sistemare i tasselli, programmare gli interventi urgenti alla propria vita, rimandare quelli che prevedono un vago senso di decisionalità lucida.

Perché di momenti simili ne incontri sempre. Periodi in cui hai troppe cose da fare, e a volte son così fastidiose da esser rimandate all’infinito.
Ecco, io quando mi ritrovo con mille cose da fare, la rata del condominio da saldare, il tagliando della macchina, l’appuntamento con l’agenzia, la definizione di un tal progetto, la visita dal dentista, il rinnovo dell’imob, la macchina del caffè da riparare, e scrivere quella cosa sul blog, e… e…
Ecco, son tutte scuse. Per impegnar la testa con cose che mi impediscano di pensare al vero problema. Vero, o presunto tale. Ma comunque, abbastanza doloroso da dover essere “nascosto” da mille scemenze urgenti, da procrastinare all’infinito.

E poi ci sono sere, si diceva.
Tipo questa.