Inizio

Inizio

Destarsi a metà tra il sogno e il grido della sveglia, lasciata lì a distinguere la realtà dalla fuga, il quotidiano dal tradimento.
Sentire freddo, coprire il corpo nudo e stropicciato di sesso e di confusione alcoolica, e in fianco una pelle sconosciuta, ancora sporca di baci sconsiderati.
Si aggroviglia tra le lenzuola pensando se deve abbracciarlo, se può accostarsi, se le carezze sono ancora fresche da giustificare la vicinanza, la ricerca del contatto. Poi pensa che il freddo non è certo un buon motivo per avvicinare le distanze, per complicanze, legami, inizi.
Eppure lo stordimento rimbomba ancora nelle vene, i brividi convulsivi sono finiti solo un istante fa, o forse son minuti, o ore. Sul bordo, tra il destarsi al mondo reale, chi sei come ti chiami come stiamo adesso, oppure tornare a tacere, tirando lunga sul momento in cui ci si chiariscono le posizioni.
E mo’ si gira. E apre gli occhi, e magari è da mezzora sveglio, e ora la fissa gli occhi. E ci guarda dentro, come se non bastasse la tua nudità.
Ha un bel viso, non se lo ricordava, non l’aveva notato. Un viso liscio, limpido, trasparente, la barba incolta ma ordinata.
Anche lui la nota, è bella, anche coi capelli spettinati dal caos della fornicazione, il trucco scemato quasi a sparire, e lui a dirsi che le donne dovrebbero smettere di truccarsi, già, che poi sembrano tutte uguali.
Ah, le labbra, dunque son quelle, le labbra desiderate, e morse, e rincorse. Parte una carezza. E’ partita, niente, non la fermi, mannaggia. Una carezza tenera, a lisciarle i capelli. A lei viene da chiudere gli occhi, per godersela, ma resiste, che non si pensi che, che non si dia l’impressione di, insomma, grazie, non è che provo niente altro che eh, a meno che tu, ecco, ma no, ma insomma, quasi quasi diamoci del lei.

Vabbè, il sorriso ci sta. Prende fiato, riprende il controllo, e glielo chiede. Profonda. Seria. Professionale.

-… colazione?

7mbre

7mbre

Arriva la stagione del ricambio.

E’ scuro presto, hai voglia di farti un thé caldo coi biscotti, metterti un maglioncino la sera, dormire in silenzio, senza il condizionatore, e non uscir più tutte le sere, stare a casa a guardarti un film, “al caldo”.

Tiri una riga, e riprendi le cose sospese, domandandoti cosa c’è da tenere e cosa da buttare.

Di colpo, tutto sta lì, e ha un colore diverso, come il maglioncino preferito di aprile, che adesso non è più così bello come si ricordava. E boh, non sai che farne.

Certe cose devi continuarle, oppure…oppure no. Le guardi, le rigiri, e pensi che non ne sei più sicura. Amici e situazioni, e ambiti, e abitudini.

Un po’ di cose le tagli. I capelli, o certi amici, alcuni impegni, molti obblighi.
Altri rami secchi li ripieghi, li metti in cassetto, per decidere più in là.

Ed altri, altri tornan fuori irrisolti, e ci pensi in continuazione, non sai cosa farne perchè “mah chissà magari poi cambia evolve perdo occasioni”. Però, l’entusiasmo s’è spento, nell’attimo in cui hai messo in discussione il tutto.

Trascini le cose, poi vedi che ne hai di nuove tra le mani, e non ci stà tutto.

E allora, trattieni il respiro, ti riprometti di non aver rimorsi, e via.

Sì insomma, tra un attimo che penso meglio cosa e come. Ma taglio, eh, qualcosa taglio.

Perfect 4 a Flauta

Perfect 4 a Flauta

Passi sotto il Big Ben di Londra, e questo suona il mezzogiorno. Qualcosa vorrà pur dire.
Trovi il negozio che cercavi, provi flauti a profusione, eviti acquisti compulsivi solo per un pelo. E la borsetta che poi ti porti a presso diventa identificativo per incontrare flautisti ovunque. Che ti fermano proprio per strada, manco fossi qualcuno.
Imbracciare un ponte, e trovarsi in un quartiere d’artisti, con banchetti di cose talmente buone che son incluse tra i vizi capitali. E gente, facce, storie, non hai tempo di fotografare, stai ancora in download nella memoria, che vuol mantenere in testa tutto questo.

Ora, ora è il momento di espiare le mie nefandezze. Vado coi vizi capitali. Di cui sopra.

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As usual

As usual

Passeggi e sembra di essere a casa tua. Guardi milioni di ristoranti cercando di tenerli da conto, come se tutte le sere si cenasse a Londra. Vedi i supermercati e senti l’istinto di far la spesa per casa, riempiendoti di frutta gigantesca e pane arabo.
E ci pensi, che qui non è da farci una vacanza, questo è un posto dove venirci a vivere. Anche se son solo 4 ore che sei scesa dall’aereo.

Attorno ad un tavolo, amici occasionali con svariate coniugazioni d’accento inglese, birra e improbabili patatine al gusto sale e aceto. Io propongo il mio multiculturale cabaret da italiana simpatica, in mezzo ad un miscuglio di avventori del pub che fanno risaltare la multiculturalità di questo paese.

E poi penso che la medesima fighissima multiculturalità ha fatto bum, tre giorni fa.
Qui attorno i negozi hanno una vetrina di compensato, messa lì quasi come abbellimento. Quasi non ci si fa caso, nemmeno al negozio di elettronica, devastato solo due giorni fa, dal “recreative looting”, e rimesso in piedi con orgoglio proprio con le impalcature di compensato.
Ed anche qui una scritta: OPEN, AS USUAL. Che mica è successo nulla, eh.

Forti, sti inglesi.

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London town

London town

Partire e lasciare la mia Venezia col sole, e arrivare a Londra con un tipico grigio regale. Sentirsi una bimba in gita, un po’ disorientata, forse perché per una volta, non avendo un figlio appresso per cui dover esser responsabile ed organizzata, ho anche voglia di sentirmi un po’ persa.
È la mia prima volta qui. Finora ero squisitamente fuori moda, ad aver mancato Londra. Mi han detto che è bella ma non come diec’anni fa. Ma a me cazzo mi frega di diec’anni fa, io ci vado adesso.
Vedo fuori case atipiche per me, e case dalle finestre piccole. Non capisco perché, così piccole. Oddio, anche le case sono piccole.
Non oso pensare cos’altro…

Mio figlio è dislessico

Mio figlio è dislessico

Vorrei tu sapessi tutto, conoscessi questi nostri anni, comprendessi ciò che abbiamo vissuto. Per poi essere pronto, se questa avventura capitasse a te.
Vorrei farti vedere le lacrime di un bimbo che inspiegabilmente non imparava, che non sapeva memorizzare una tabellina ma poteva usare le parole come poesia.
Vorrei farti sentire la frustrazione di non riuscire ad aiutarlo, finendo la pazienza e la voce a suon di sgridate. E i dopocena sopra i libri, l’ortografia inesistente, il caos dei quaderni. E le pagelle, le maestre, le spiegazioni di com’è tuo figlio, come se non lo sapessi.
Non è poco intelligente, ma è distratto, disordinato, fa confusione. E non possiamo mica seguirli tutti, sa.

E intanto, tu vivi a fianco a questo bambino. Strepitoso, geniale, simpatico, educato ed obbediente, stimolante, ed estremamente creativo. Lo guardi, e ti chiedi cosa diamine gli impedisca di riuscire a scuola. E scacci i pensieri sul riuscire nella vita, perché non può non riuscire con tutte le doti che ha.

Ma ogni giorno la sua fiducia scende, la stima in se’ stesso crolla, e lo senti troppo spesso darsi dello stupido, dell’incapace.
Poi si aggiungono i compagni di classe, che lo canzonano sempre più ferocemente, convincendolo ancor più di quel ruolo, isolandolo dalla sua società scolastica.
E tu, madre, hai poco da fare: la sua vita è ora l’accettazione nel gruppo, non più l’amore di mamma. Riempi l’aria di prediche, discorsi, e continui a dirti… Cosa diamine c’è che non va. Sei così intelligente e maturo. Perché diamine non riesci a leggere velocemente, perché sbagli a caso le lettere, perché sei così distratto?

E ti disperi. Ti incolpi di non seguirlo abbastanza, o troppo. E chiedi aiuto, ma non sempre trovi le persone giuste, gli aiuti giusti. Anzi, di solito non li trovi proprio.

Così magari ti ritrovi a parlare, ancora, con una professoressa che ancora, e ancora, ti ripete le medesime cose, e non ce la fa, e magari deve maturare, è distratto, svogliato, magari ha problemi. Ne senti, ah si, di tutti i colori.

Ecco. Se ti capitasse, non smettere di cercare. Perché potresti trovare qualcuno che sa capire che hai un figlio straordinario, anche troppo: è dislessico.
Potresti imparare che non c’entra un cavolo coi problemi di pronuncia, magari tuo figlio ha una proprietà di linguaggio straordinaria, appunto, data dalle sue doti pazzesche, che vedono oltre le lettere, oltre l’astrattismo di regole di ortografia o la noia di numeri senza logica.
Un figlio impegnativo, ma stimolante, che vede il mondo in modo diverso, esploso nelle sue parti, un prisma di diversi toni attorno.

Ecco, quel giorno saprai che la scuola è ora obbligata a crescerlo secondo la sua splendida attitudine, e tutto sarà così logicamente semplice, tempo perso insistere con metodi inadatti, il modo giusto è così ovvio, semplice, sereno. Basta modificare il modo, la quantità, e la qualità sarà la stessa, i risultati saranno quelli richiesti.
Quel giorno dovrai rimettere i pezzi a posto, e cominciare a restituirgli il suo valore, la stima di se’, la considerazione degli altri. Dovrà cominciare ad amarsi come l’hai sempre amato tu.

Per me quel giorno è oggi. E il resto che voglio è che tu, e chiunque tu possa conoscere, sappiano tutto questo.
Perché non voglio che nessun altro bambino soffra, solo perché non ci si è ancora accorti che è, meravigliosamente, dislessico

Cielo.

Cielo.

Ed uscendo dall’ufficio, ho guardato in alto, lo scorcio di cielo tra un palazzo e l’altro.

Azzurro. Azzurro intenso.

E son rimasta lì, paralizzata, a perdermici. Un colore, ampio, pieno di energia e di grandezza, lontanissimo eppure ad un palmo dal naso.

E in un attimo, è esploso, assorbendo le forme dei tetti intorno, i rumori del bar, le auto parcheggiate, la gente che mi passava a fianco.  Immenso, infinito, sicuro di se’ e quasi strafottente della sua grandiosa ed uniforme bellezza.  Quasi un dipinto, con colori fatti di nuvole e gas e atmosfera e chissà cos’altro.

Un diamine di aereo, in cima, decise di tagliarlo, passando perfettamente in mezzo al mio scorcio di tetto azzurro, con la scia bianca spessa dietro, come un taglierino da sarta sulla tela.
Lento, altissimo, pieno di gente che va in ferie, eh sì, non può essere altrimenti. Gente che se ne va, che si staglia nel cielo col naso dentro un giornale, ed una hostess troppo truccata a portare carrelli di succo d’arancia annacquato.  Mentre io, ebete, li spiavo guardando per aria, ferma in mezzo alla calle, naso per aria, indifferente allo sguardo dei passanti intorno.

C’era pure una brezza bollente, di un’estate che s’è ricordata di arrivare, che si strusciava invadente sulla pelle.

A quel punto, ho dimenticato tutto e mi son messa ad essere felice.

Decisioni dall’alto

Decisioni dall’alto

E niente. La scorsa settimana ho sognato il mio papà, in quello spiraglio di semincoscienza tra il sonno profondo e il risveglio della mattina, quando la prima sveglia è già suonata, ma ti appisoli lo stesso.

Era sorridentissimo, il viso più ingrasato, e portava una giacca di camoscio. Camoscio? Mio padre, sempre in completo scuro, camicia e cravatta inappuntabile anche in ferie, con una giacca di camoscio… impensabile.

Si vede che lassù si usa così.

E quindi. Son con mia mamma, dal marmista, a decidere della pietra del loculo. Il colore della resina per l’iscrizione, il tipo di portafiori, la lampada votiva. Mettici la croce, mettici l’N.H. (che siam pur sempre nobili), mettici il dott.,  cavaliere no che non gli è mai piaciuto. Bon.
La foto, la foto la sceglie mia mamma. Ne tira fuori alcune, sempre le stesse, quelle dell’epigrafe.

Ma non sorride mai.

Il Gabry dice che il nonno tanto non sorrideva mai, aveva più uno sguardo tra il sereno e il pensieroso. Mia mamma però insiste.

E quindi, tira fuori una loro foto (“è di qualche anno fa’”, ovvero novembre ’97…) di un loro viaggio a Zara, la città di nascita di mia mamma. Sono al ristorante, qualche buona bottiglia di ottimo rosso davanti, e lui sorride.

Che ve lo dico a fare, ha la camicia perfetta e la cravatta immobile al suo posto. E una giacca, appunto, di camoscio.

…okay papà, ho capito, mettiamo quella.

Ciao.

Dàghe.

Dàghe.

E d’un tratto,  il cervello si fermò, di fronte ad una dichiarazione luminosa.

Le rotelle delle lamentele, delle indecisioni, della confusione e della paura, tutte ferme. Tipo, guardi due ore come metter quel bullone impossibile da incastrare, e d’un tratto… guardalo là, il verso giusto, per forza.

Sapeva perfettamente quello che voleva. Sapeva pure come farlo. Bastava iniziare, e per Dio, basta rimandare. Adesso siamo grandi, abbiamo capacità e mezzi. E se non sappiamo se siamo abbastanza bravi, è solo perchè non ci basta mai sentircelo dire. O perchè siamo talmente idiotamente vanitosi che temiamo di, che scandalo, sbagliare.

Condividere, poi, ah, bel discorso. Condividere significa prender le idee tue e mescolarle con gli altri, scendere a compromessi, infestarle in modo diplomatico con quelle degli altri.  Come se da soli non si sapesse camminare, come se non si fosse (come invece è) comunque soli.

Che poi, i progetti migliori erano stati i suoi, quelli dove ci metteva la faccia, dove veniva punita ed esaltata, ma lei sola.

Un’illuminazione. Vado, decido, faccio. Niente di tanto preoccupante.

Raccolse le idee, pianificò gli ingredienti necessari, e senza proferir parola a nessuno, iniziò.

 

 

(e magari pensò al cambio del template del blog, nei momenti liberi)

La coda del bacio

La coda del bacio

Appoggiò la testa sulla sua spalla.

Un abbraccio lieve, quelli che seguono un lungo e straordinario bacio, di quei baci che non sai se finire, se aspettare che lo finisca lui, se ricominciarlo ancora. E appoggi la testa sulla spalla.

Appoggiò la testa sulla spalla, ecco, ascoltando la musica intorno, a contrappuntarsi coi battiti del suo cuore. Le cose e le persone, lì intorno, scomparivano sommerse dalle sue emozioni, in un alone di luce e brividi.

Poteva durare un istante, ma in quell’instante l’abbraccio era eterno, infinito.

Domani non so, ieri nemmeno, ma oggi, in quest’istante, tutto mi sembra immobile, e sconvolgente, e magico. E il calore di un amore che ti dà le vertigini, che ti brucia la testa, che ti colma di commozione gli occhi, che luccicano.

Come una danza, la testa appoggiata mentre noi balliamo immobili, stringendoci i pensieri fino a confonderli, mescolando i respiri pur restando in apnea. Come una danza, una bossanova leggera che ammorbidisce i movimenti, e non batti il piede ma muovi la testa, dolcemente, di qua e di là, quasi un salice che si dondola con un vento caldo dipingendosi di rosso tramonto.

Quanto durava? La fine d’una canzone, la coda di quel bacio, il tempo di veder scivolare via le vertigini, come sentire un vino buono sbocciare in bocca e scendere a scaldarti il petto, o il tempo di una risata. Un poco più di un istante.

Pensa un po’. Me lo ricordo tutto, quest’istante, ed era solo… adesso.