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Piove.

Cioè, no, non piove, diluvia.

Per una malsana legge di Murphy-desinenza veneziana, le passerelle dell’acqua alta sono posizionate in modo inversamente proporzionale al percorso che ti porta al dovedeviandare. Indi, ci sarà sempre una calle, la calle che TU devi attraversare (che non porta a musei, chiese, mostre, e roba da turisti) che sarà invasa dalla laguna. Ovviamente, nel momento di picco della marea. La calle sarà sufficientemente stretta da non farti passare con l’ombrello, e ci saranno i masegni sufficientemente scivolosi da farti ripetere tutte le preghierine che le suore all’asilo ti hanno insegnato. Anche “angelo custode”, per dire, l’atto di dolore e l’eterno riposo. Li si dice tutti, che non mi si tacci (o mort-tacci) di preferenze alcune.

A prescindere da ciò. Da noi si dice “scravàssa”. Intraducibile. Sebbene, se foste qui, comprendereste perfettamente la traduzione onomatopeica.

Ecco. E dal mio ufficietto, contemplando il sito del meteo regionale, sentendo tòni e saète al di fuori (e al di dentro), penso che tra qualche ora dovrò farmi i 50 km per andare ad insegnare. E mi dico: eh no. Oggi no. Come il comunale (di una volta, ecco) che vedeva fuori il tempo e si dava malato.

Oggi mi fermo. Piove fuori e dentro me (ostia che umido).

E mi riposo. E “fare manca” è una sensazione insolita, ma bellissima.