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La pizza del liceo

La pizza del liceo

E’ strabiliante quanto un gruppo di coetanee, con passato scolastico simile, abbia addosso una percentuale di rughe così varia.
Questo il mio primo pensiero, accompagnato dal dover sentenziare che il tempo migliora le brutte, mentre le belle non hanno margini di miglioramento così sostanziali. Ma tant’è.

La pizza del liceo capita ogni 5-6 anni, organizzata dalla solerte Lucia, che tiene ordinatamente i numeri di telefono di tutti, forse l’unica che davvero rimpiange i bei tempi andati. Indubbio che tali ricordi, soprattutto quelli a valenza negativa, affievoliscono col tempo, e siamo incredibilmente sempre più numerosi ogni anno che passa.

Prima della cena di classe, nessuno lo ammetterà mai ma ci sono giorni di dieta, creme per il viso, scelta del look e preparazione psicologica all’atteggiamento più o meno da “io ce l’ho fatta, nella vita”. Ah si. Beh. Circa.

Il mio liceo era legato al conservatorio, indi tutti musicisti, tutti morbidamente adagiati nel bel palazzo veneziano, tra stucchi cadenti e riflessi lagunari, e note che ci riempivano la testa, e l’orgoglio. C’è sempre il gusto di scoprire, tra quelli che più s’atteggiavano, coloro che invece fanno la cassiera o il rappresentante d’auto. Che ce ne sono eh.

Uno stuolo di maestre di musica, propedeutica, musicoterapia, musicologia, musicazzologia applicata. E pensare che all’epoca GIAMMAI avremmo voluto insegnare (era da falliti, insegnare…).

E quella che dirige l’orchestra, ah si, ma se l’ho vista far supplenze di sostegno, eh sai, sui giornali si dice di tutto, eh si, è dura, non ti pagano mai. Ah lo strumento l’ho in soffitta, da anni. Io? suono solo a lezione ormai. Mah, dopo che è arrivata la seconda figlia ho dovuto smettere, sai… Un lavoro sicuro almeno ti da la pensione, ho un mutuo e due figli, siam precari a vita, eh si.

” ma tu… suoni ancora?” la domanda ricorrente.  Quella domanda che mi blocca, mi imbruttisce, mi toglie la vena ironica, io che vorrei scrivere un post irriverente, come mio solito,  sulla questione. Non mi riesce.

Di musica non si vive, e nemmeno si sopravvive. Siamo un gruzzolo di caparbi che insistono, che ci credono, che sono lì lì per i 40 anni ma si ostinano a volerci, almeno un po’, provare.
Talentuosi, per la maggior parte, che respirano aria diversa stando tutti insieme, sentendosi “speciali”, “diversi” dagli altri, vanitosamente “migliori” per aver addosso un’arte.

Le foto dei tempi, quelli con pettinature improbabili e vestiti anni 80, con accostamenti a dir poco imbarazzanti, iniziano ad intenerirci. I saggi, noi ragazzini vestiti da grandi, il Direttore e il Maestro, il concerto di Natale e l’inno a Santa Cecilia.  Tutti film sempre più sfocati, assieme a immagini di quelli attorno a questo tavolo, che davvero non calzano più col passato. Siamo migliorati, siamo gentili, siamo vecchi amici. Abbiamo la malinconia dei nostri sogni, delle convinzioni da grandi artisti, e di quella visione tutta rosa della musica, delle audizioni, delle orchestre.

Ivan lo ripete, orgoglioso: io vivo di musica, eh. Lo ripete e infastidisce. Ha trovato un giro di cantanti americane, le accompagna, ha accompagnato un playback in rai l’altro giorno. Marchette, certo, un compromesso come un altro. Un po’ come il mio, a lavorare in comune.

Ore a ricordare, a riderne, vediamo di trovarci presto. Eh si. Più avanti, per fare ancora il punto della situazione. Come se tutti corressimo soli, ma appartenendo alla stessa squadra.

Torno a casa, e me lo chiedo ancora, chissà se ce la farò, a combinare qualcosa, …….chissà se non è troppo tardi.

 

 

 

 

 

P.S. Alla domanda “senti… dopo anni, posso chiederti? Ma chi ti sei fatta del Conservatorio??” ho capito che, si, l’immagine da mangiauomini ce l’ho dai tempi del Liceo. Bisogna rassegnarvisi.