Mio figlio è dislessico ed ha 7 in italiano.
Quattro anni fa uscivamo da una scuola senza vie d’uscita. Sembrava un incubo. Come fosse un tavolo, con quattro gambe, che non ne voleva sapere di stare in piedi.
Poi è arrivata la dottoressa Tiziana, conosciuta per caso grazie alla moglie del mio batterista, e con una serie di test è saltato fuori che il tavolo stava benissimo in piedi, bastava guardarlo dall’altro lato.
Anni di mappe, riassunti, schemi, modi alternativi di fissare gli argomenti. Anni di calcolatrici perse per casa, appunti passati via WhatsApp dalla compagna di classe e ricopiati da me mille volte, libri da leggere e verbi di inglese da schematizzare. E la matematica, ah la matematica, e Letizia che ci corregge al telefono, al volo, le espressioni che non tornano. E le leve, con Paolo che le schematizza in tre dimensioni con equilibrismi di righelli e matite (e accendini).
Dall’altra parte, litigi più o meno palesi, diplomazie e rincorse di suggerimenti e informazioni dai professori. E ognuno a dire quanto è simpatico ed educatissimo… dimenticando che potrebbero comprendere le difficoltà e ogni tanto interrogarlo, invece che puntare per pigrizia sullo scritto. Eppoi c’è la prof che ripete quanto è straordinariamente maturo e sveglio, pieno di idee e di interazione, compensando quell’altro che abbassa il voto perché “scrive disordinato”, come se la diagnosi di disgrafia volesse dire patatine.
Ed i compagni di classe, che non perdono occasione di infierire, con quella crudeltà tipica delle medie.
Eppoi son arrivate le superiori. Un altro universo.
Ormai il metodo lo si conosce, si sa dove insistere e dove accontentarsi, si impara quali sono gli ambiti in cui pretendere da se stessi l’eccellenza. C’è l’adolescenza, croce e delizia, e le redini da tener strette per non perdere l’obiettivo, perché basta una settimana “da mona” e ti prendi un’insufficienza dura da recuperare, un’amicizia dispersiva che ti cambia agli occhi dei professori, un amore fresco che ti fa perder la testa. Però ce la fai, sei dislessico, sei abituato a superare le montagne, a tener duro quando la testa è già stanca e le lettere svolazzano a destra e a manca.
Ed è fine anno. E guardi i tabelloni. E sei promosso, con una sfilza di otto (e pure un nove), e ti chiedi com’è che da dislessico adesso sei tra i migliori della classe. E sei orgoglioso, o almeno lo spero, quanto lo è la tua mamma.
Anni fa avevo scritto della prima diagnosi, perché non se ne parla nonostante i disturbi dell’apprendimento siano molto comuni, scambiati per svogliatezza o per “disabilità” (ma sta cippa proprio, eh).
Un esempio di cosa sia la dislessia?
Mio figlio, quando legge la parola Zortea (ridente paesino di montagna) legge “Zoreta”. Il suo cervello acquisisce l’informazione delle lettere e le ordina secondo un sistema per lui logico. Quando legge parole più comuni, come, che ne so, “LA FLAUTA”, magari legge “LA FALUTA” e poi deve riorganizzare nuovamente la lettura dandogli un senso che conosce, comprendendo che c’è probabilmente scritto il soprannome di sua madre e non un (che ne so) ulteriore paesino di montagna.
Immaginate cosa significhi questo processo di elaborazione doppio applicato ad una pagina di letteratura…
Voglio riaprire il discorso perché quella pagina è stata letta da moltissime persone, con commenti e con mail private, nelle quali molti genitori ed adulti dislessici mi hanno confidato l’angoscia che prende quando devi affrontare, dal nulla, il discorso “ho un figlio dislessico”. Perché poi va a finire che non vedi vie d’uscita, è una salita dolorosa che mette alla prova genitore e figlio, anche nella stima di se’ stessi.
Ed invece, non serve uscirne: bisogna solo trovare i mezzi per proseguire. La salita poi si appianerà e si potranno superare anche gli altri corridori, facendo fiato ed ogni tanto… godendosi il panorama.
Il nostro panorama è questo: il tabellone di fine anno di prima superiore, ed un sette in italiano. Se si dava una mossa, magari diventava anche un otto, come in storia…. ma ci sta. Se ci voltiamo a vedere il sentiero percorso, comprendiamo di quanto importante sia questa tappa, in termini di fiducia, di obiettivi da rivedere, di ambizioni da ingrassare.
E adesso, si va avanti. Anzi, va lui avanti, ormai non ha (quasi) più bisogno di me…